Renzi e il mito della spesa pubblica americana

13 Febbraio 2015

Ripeti una bugia cento volte ed essa diventerà una verità, disse una volta qualcuno. Poche altre componenti del discorso pubblico europeo di politica economica dimostrano con chiarezza la validità imperitura di tale prescrizione quanto il persistente mito della spesa pubblica americana che avrebbe trainato la crescita degli ultimi anni.

Ieri sera, dal vertice di Bruxelles, il Presidente del Consiglio ha fatto il seguente tweet,

Questa slide appena presentata da @JunckerEU è la dimostrazione che Europa DEVE cambiare verso #lavoltabuona

Ed ecco la slide,

 

tweet

 

dove è graficamente illustrata la divergenza di performance economica tra l’area euro e gli Stati Uniti dal 2009 ad oggi, in termini di crescita del prodotto e livelli di disoccupazione.

Ad un primo livello di lettura, è tutto ovvio e ben noto: gli Stati Uniti hanno ripreso a correre e la disoccupazione è calata in modo sostanziale, cosa che non è accaduta nella zona euro, in aggregato (internamente, la differenza tra paesi è enorme). I problemi cominciano quando si passa a considerare la diagnosi implicita nelle parole di Renzi: sappiamo bene – lo abbiamo sentito di continuo, ed il semestre europeo appena trascorso è stato in gran parte impostato su tale richiesta -, che #cambiareverso all’Europa, secondo il Presidente del Consiglio, significa avere maggiore flessibilità di bilancio, poter spendere di più, allentare quello che viene definito il rigore che strozza le economie del vecchio continente. Palesemente, dunque, si vuole suggerire che gli Usa sono ripartiti in modo vigoroso perché si sarebbero tenuti lontani dalla cosiddetta austerità ed avrebbero sostenuto l’economia attraverso la spesa. 

 

Ora, qui non si vuole davvero entrare nel merito dello spinoso dibattito sull’austerità in Europa, ma soltanto limitarsi ad indicare un fatto: il mito di un Barack Obama “big spender” sta solo, e non si può dire che la coincidenza non sia curiosa, a) nella retorica a volte caricaturale che i Repubblicani utilizzano per attaccarlo, b) nella fantasia auto-interessata di molti politici europei (anche, e forse soprattutto, di sinistra, ma ormai quando si tratta di spesa le distinzioni tendono a perdersi) alla ricerca di una giustificazione per allargare nuovamente i cordoni della borsa. Nei numeri non esiste. 

La politica fiscale americana è stata assai poco espansiva in questi anni, tanto che il deficit federale ha continuato a ridursi – ad oggi di circa mille miliardi di dollari – e l’amministrazione Obama ne ha persino fatto un titolo di vanto ben pubblicizzato sul sito della Casa Bianca.

D’altra parte, andamento della spesa (in rosso) e andamento del Pil (in azzurro), non lasciano troppo spazio alle favole,

 

2015-02-13 05.09.11 (1)

 

(tralasciando qui ciò che questo potrebbe suggerire circa il famoso “moltiplicatore”). Senza contare che, se oltre al budget federale includessimo anche quello dei diversi Stati, i dati ci mostrerebbero un fiscal restraint ancora maggiore.

 

Infine, se guardiamo all’andamento del cosiddetto “discretionary spending”,

2015-02-13 07.37.55

vediamo che

a) anche al suo picco, nel 2009, non si scostò moltissimo dalla media di lungo periodo (9,1% vs 8,4% su Pil) e fu comunque inferiore al massimo del 10% raggiunto nel 1983;

b) oggi è giunto ad essere ben al di sotto di quella media di lungo periodo ed è previsto calare ancora nei prossimi anni;

c)  ancora una volta, è la stessa amministrazione Obama che, in bella mostra sul sito della Casa Bianca, fa vanto di aver diminuito in modo consistente “[our] discretionary spending to its lowest level as a share of the economy since Dwight D. Eisenhower”.

 

Come dire, un po’ diverso dalla storiella che vorrebbero raccontarci.

 

UPDATE. Da Bloomberg, un grafico che elabora i dati del Dipartimento del Lavoro americano  sull’impiego pubblico a livello federale, statale e locale dal 2009 ad oggi (HT Fabio Scacciavillani),

 

jjjjjjj

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TAG: austerità, deficit, obama, spesa pubblica
CAT: macroeconomia

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