Come rendere le tecnologie digitali capaci di creare, e non erodere, lavoro

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27 Aprile 2016

Che il digitale crei occupazione grazie all’avvento di nuovi lavori e grazie all’apertura del mercato non è, come vorrebbero i fautori delle “magnifiche sorti e progressive”, una garanzia nè è vero il contrario secondo quanto sostengono i cosiddetti “neoluddisti”.

Il rischio di una società “senza lavoro” – non c’è alcun dubbio – esiste perchè la diffusione delle tecnologie digitali erode i lavori di carattere ripetitivo come alcune mansioni appartenenti all’ambito dell’amministrazione, dei servizi e delle vendite: le funzioni di segreteria vengono rimpiazzate dai calendari e dai file condivisi, i posti di lavoro di carattere commerciale sono posti sotto attacco da parte dell’evoluzione del retail e dalla diffusione del commercio elettronico. La velocità con la quale le competenze invecchiano rende poi insostenibile l’adozione di un puro concetto di “disoccupazione frizionale” affrontabile con il classico percorso scuola – lavoro.

Il quadro, ricco di studi e di interventi, è stato dipinto la scorsa settimana dal primo “Jobless Society Forum” organizzato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e pensato per coinvolgere ricercatori, policy-makers e professionisti in grado di offrire contributi atti a sostenere le soluzioni  migliori per affrontare il futuro.

La necessità di far fronte al cambiamento è poi richiesta dal prodursi di molteplici sfide:

– una sfida demografica che, a seguito dell’invecchiare della popolazione e della popolazione attiva, vede contrapporsi, sul piano delle competenze gli “Under” e gli “Over”;
– una sfida generazionale dove chi oggi ha un’età a cavallo dei trent’anni corre il rischio di pagare gli anni della precarietà e vedersi preferiti i lavoratori più giovani, nativi digitali e con richieste di reddito e di inquadramento inferiori;
– una sfida di rappresentanza legata ad un mercato del lavoro più liquido e frammentato;
– una sfida tecnologica che distribuisce il reddito presso una cerchia sempre più ristretta di lavoratori altamente qualificati vedendo crescere i ranghi dei NEET (“not engaged in employment, education and training”) e dei lavori le cui competenze arrecano un minor valore aggiunto.

Se il quadro è ormai chiaro, pare evidente che le soluzioni debbano essere trovate in nuove forme di welfare state – in questa prospettiva si inserisce l’attuale dibattito sul reddito di cittadinanza – ma anche in un diverso approccio culturale che premi la formazione continua, la capacità di inventarsi un lavoro, l’educazione al risparmio e soprattutto politiche attive che sappiano supportare le fasi di inoccupazione e favorire l’equilibrio fra domanda e offerta del lavoro. La prova del Jobs Act nel nostro Paese vede ancora non completati proprio gli aspetti relativi alle politiche attive ed al rilancio dei centri per l’impiego.

All’inizio del 2000, l’edizione americana di Wired pubblicò un articolo dedicato alle tecnologie tematiche ed alla robotica e lo titolò, in modo provocatorio, “Il futuro non ha bisogno di noi”. Eppure lo scorso mese Mercedes ha deciso di rimpiazzare, nella propria catena di montaggio, alcune macchine con degli operai perchè, e ce ne accorgiamo tutti, più la tecnologia entra in campo, più a far la differenza è il tratto umano che solo un lavoratore preparato e motivato può fornire.

Se sulla tecnologia, il nostro Paese e l’Europa si trovano di fronte a sfide immani sul fronte della competitività, sul fronte della preparazione e della motivazione delle persone tutto il sistema ha di fronte a sè il compito più importante di questo secolo.

Andrea Boscaro

@andrea_boscaro

TAG: disoccupazione, Formazione, Jobs Act, Lavoro, occupazione, reddito di cittadinanza
CAT: Occupazione

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