Perché i Black bloc rubano la scena

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2 Maggio 2015


Una premessa sempre utile: la violenza contro l’ordine costituito non nasce mai in modo automatico da una condizione di sfruttamento o di marginalità, ma è sempre un frutto dell'”autonomia del politico”. Se così non fosse, gli ultimi della terra avrebbero già distrutto a mani nude il cosiddetto primo mondo. Più modestamente, ciò che accade è che dei ragazzetti in felpa distruggano una certa quantità di «surplus produttivo» o bastonino qualche poliziotto nel centro di Milano. Bisogna resistere alla tentazione – fortissima, per quanto mi riguarda – di rubricare l’episodio come “la solita violenza dei soliti coglioni” e chiedersi serenamente chi c’era, ieri, a sfondare le vetrine in corso Magenta.

Come sempre c’era un po’ di tutto, perché l’umanità è varia anche in parrocchie ristrettissime come sembra essere quella del Black bloc. C’erano sicuramente l’attivista a tempo pieno, il cane sciolto, quello che ama dar fuoco alle cose ma non farebbe del male a una mosca, il violento borderline, il ragazzino che va lì per guardare, apre la bocca senza collegarla al cervello davanti ai microfoni della TV e poi se ne pente. C’erano tutti loro, e per la prima volta il fenomeno si è visto in purezza, per così dire. Nessuna carica della polizia e a quanto pare solo qualche scaramuccia coi collettivi studenteschi. Andavano per sfasciare tutto e hanno sfasciato tutto, praticamente indisturbati.

Non avranno Rolex al polso, ma non sono Lumpenproletariat. Sono di media estrazione sociale, quando non di buona famiglia, e in ogni caso più ricchi dei “ragazzi con le magliette a strisce” protagonisti degli scontri di piazza Statuto a Torino nel ’62 o degli “untorelli” che cacciarono Luciano Lama dalla Sapienza nel ’77. Ripensare a quegli anni è quasi un obbligo, se non altro per avere un termine di paragone. Di fatto, dalla fine del boom in poi, a cadenza periodica, appare uno strano soggetto di cui nessuno capisce l’origine e che tutti si affrettano a liquidare in positivo o in negativo rispetto alla propria narrazione.

I partiti ne condannano la violenza negandone la natura politica, le teste d’uovo delle università lo vedono come un’incarnazione delle proprie teorie. I ragazzi del Black bloc show di Milano sono giovani e sono incazzati, resta da precisare il perché. Non rappresentati, declassati, frustrati dalla (im)mobilità sociale, spesso iperformati in un mercato del lavoro che non li può integrare, insomma precarizzati. Proprio sulla questione della precarietà lavorativa, è interessante riprendere un passo de L’orda d’oro di Nanni Balestrini e Primo Moroni (Feltrinelli), storia delle storie del nostro lunghissimo Sessantotto:

«Se la ristrutturazione, fluidificando il mercato del lavoro, configurò un nuovo assetto produttivo in cui l’attività lavorativa andava caratterizzandosi come precaria, saltuaria e interscambiabile tra funzioni manuali e intellettuali, i soggetti del ’77 fecero proprio questo terreno di estrema mobilità tra lavori differenti e tra lavoro e non lavoro, concependo la prestazione lavorativa come dato occasionale piuttosto che fondamento costitutivo della propria esistenza.

«Invece che premere e lottare per assicurarsi il “posto fisso” per tutta la vita, in fabbrica o in ufficio, vennero privilegiate le sperimentazioni sulle forme possibili di alternativa al procacciamento del reddito. Per questi soggetti la mobilità nel rapporto con il lavoro divenne da forma imposta, scelta consapevole e privilegiata rispetto al lavoro garantito delle otto ore al giorno per tutta la vita. I giovani operai già occupati nelle fabbriche, dopo aver misurato l’impossibilità e l’inutilità di resistere al processo di ristrutturazione con la lotta per la “salvaguardia del posto di lavoro”, si autolicenziarono scegliendo il fronte del lavoro mobile». (p.531)

Questo passo fa emergere tutte le (enormi) differenze e le possibili affinità con quella generazione e quel contesto. Esistono dei fili sottili che probabilmente  legano i fatti di ieri ad una tradizione politica (o prepolitica) ben più vecchia dell’Autonomia e che non hanno proprio nulla a che fare con l’utopia e il desiderio di un mondo migliore. Forse si tratta di quella sorta di dannunzianesimo da due soldi che tutte le minoranze rumorose hanno nel sangue. A me, socialmente e politicamente compatibile con molti di questi ragazzi, non è mai venuta voglia di dar fuoco ad un’automobile o di prendere a calci un carabiniere. Eppure qualche manifestazione l’ho fatta pure io. Ecco che il dannunziano di sinistra risponderebbe: «perché tu non hai le palle». Rimarrebbe da fare  un’analisi psicologica che può essere soltanto individuale, anche se mi pare si possa essere tutti d’accordo – compresi i diretti interessati – con Furio Jesi:

«Nel fenomeno dell’insurrezione spontanea sono presenti anche numerose componenti di ribellione nate dalle singole frustrazioni private. […]. Per il singolo la possibilità di vincere il suo amore-odio verso la massa e di fondersi nella massa, superando «per la causa» e nello slancio di combattere «per la causa» gli inevitabili urti e sacrifici imposti dalla partecipazione e dalla dedizione al gruppo» (Spartakus, Simbologia della Rivolta, Bollati Boringhieri, 2000)

In questo senso, il Black bloc perfeziona al massimo quest’idea di rivolta, proprio perché non implica alcuna dedizione al gruppo, né una vera partecipazione. Non esistono “il corteo” o “la manifestazione”, ma singoli attacchi istantanei dentro il corteo e la manifestazione. Nei tre lustri che ci separano da Genova e da Seattle abbiamo imparato a conoscerli. Non sono un gruppo organizzato, ma un’area, variabile e dai confini incerti, che unisce cani sciolti e frange dei movimenti, coi quali di fatto sono in competizione.

La giornata di ieri ci dice proprio questo: l’opposizione sociale sta sfuggendo di mano ai movimenti più politicamente strutturati (centri sociali e affini). Gli eredi dell’autonomia, nel momento in cui sembrano diventare egemoni nelle piazze – abbandonate, come ho scritto qui, dalla sinistra parlamentare – si dimostrano del tutto incapaci di gestirle, limitandosi a balbettare le solite reprimende sulla stampa asservita o sul piccolo filisteo utente dei social, condite da benaltrismo, reducismo («che ne sai di una carica della polizia, che ne sai») e dietrologia.

Ahiloro, la beffarda verità è che se nel ’77 gli autonomi erano una minoranza dedita a sabotare le manifestazioni del blocco sindacato-PCI, ora i loro lontani epigoni postoperaisti vengono sabotati dal black bloc. La manifestazione noexpo di ieri – coincidente col quindicesimo May Day organizzato dai movimenti – con tutti i suoi contenuti, è risultata infatti completamente oscurata dalla cronaca delle devastazioni. E non sarebbe potuta andare diversamente.

TAG: 1977, antagonismo, black bloc, centri sociali, EXPO 2015, movimenti, noexpo, rivolta
CAT: Partiti e politici

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