1149 candidati e qualche attentato: si vota a Taranto, dove è nato il populismo

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7 Giugno 2017

TARANTO – (di Francesco Floris e Gaetano De Monte).  È la “città dei due mari” e delle quattro industrie: Ilva, Eni, Enipower e Italcementi. Degli annunciati 6mila esuberi dal più grande stabilimento siderurgico d’Europa e dei tumori al quartiere Tamburi. È una Repubblica marinara ignorata sui banchi di scuola. Lo scrittore e magistrato Giancarlo De Cataldo, che vi è nato, l’ha racconta come «un posto dove abita la peggiore borghesia del Sud, la più famelica e irresponsabile». Per il filosofo Roberto Nistri si tratta di una città «sfigurata da una necropolitica aggressiva e da una produttività mortifera». Dieci anni fa ha conosciuto il più grave dissesto finanziario d’Italia. Eppure i soldi sono arrivati e arriveranno a fiotti in futuro. Non a caso il pezzo grosso di Roma che più parla di Taranto è Claudio De Vincenti, ministro per la la Coesione territoriale e il Mezzogiorno. Una pedina fondamentale da ingraziarsi per la politica locale: perché qui, sullo Ionio, ci sono le bonifiche da fare, i soldi dei Riva congelati in Svizzera, l’arsenale della Marina da riqualificare e l’enorme ospedale su cui in passato aveva messo gli occhi addirittura il San Raffaele di don Luigi Verzè.

Giù al porto mercantile, nei pressi della stazione, si mangia antipasto, primo e secondo di pesce con 13 euro. Ma alla notte, se ci si siede in centro nel “Caffè Italiano” di proprietà di Floriana De Gennaro, quando era candidata sindaco di una lista civica prima di convergere sul candidato del Pddivampavano incendi dolosi. Perché una tanica di benzina costa meno di 13 euro. A due settimane dal voto le automobili dei candidati sgraditi vengono sfasciate, con il manto stradale ricoperto di vetri e “santini” elettorali come avvertimento: è successo l’ultima volta nella notte fra il 4 e 5 giugno, ai danni di una donna del Comitato Cittadini Liberi e Pensanti, soggetto che si presenta a queste elezioni con il Movimento Cinque Stelle. Quando calano le tenebre, in piazza Ramellini, partono colpi di pistola calibro 6.35. È accaduto già due volte nelle scorse settimane. L’ex Procuratore capo della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, Cataldo Motta, definì «ben più di un’ipotesi» il fatto che «la mafia si è infiltrata nel Palazzo del Comune».

Si vota l’11 giugno a Taranto e la città è un laboratorio di trasformismi e affarismi di ogni genere. Una metafora della follia politica italiana dove i poteri e i contro poteri della città si schierano tutti, ma proprio tutti, in vista dell’apertura dei seggi: magistrati e malavita; digos e ultras; gli allevatori distrutti dalle diossine, la Marina militare, gli armatori, e gli ambientalisti. Perché la politica, da queste parti, piace: 200mila abitanti e 1149 aspiranti consiglieri comunali per 32 posti disponibili, 37 liste e dieci candidati sindaco si contendono il governo del Comune.

Dove è nato il populismo in Italia

Taranto è, per storia, una città antirazzista. Ma qui, ben prima dei lavavetri di Firenze, di Silvio Berlusconi, della politica ridotta a marketing o dei social di Matteo Salvini, prima delle ordinanze contro “barboni e immigrati”, e mentre Beppe Grillo faceva ancora solo l’attor comico, proprio qui, nasceva il populismo. C’è un volto televisivo, noto ai cittadini, che lo incarna. È ospite frequente del salotto domenicale di Barbara D’Urso e appare in trasmissioni come Quinta Colonna, da cui è solito lanciare invettive contro i migranti. È Giancarlo Cito, “il geometra”, proprietario di due tv locali, Tbm e Super 7 – da dove conduce Filodiretto AT6, trasmissione che va in onda dal 1991. Ex picchiatore espulso dal Movimento sociale italiano, nel 1993 si prese la guida della città con la sua Lega d’Azione Meridionale, per approdare anche in Parlamento tre anni più tardi. Legalitario (con gli altri) se ce n’è uno, negli anni ’90 risolse la guerra di mala con il pugno di ferro, ma venne costretto ad abbandonare entrambe le cariche travolto da inchieste giudiziarie che lo videro soccombere fino al terzo grado di giudizio. Dal 2003 al 2007 l’ex sindaco ha scontato quattro anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Esce di prigione ma la libertà dura poco: tra il 2011 e il 2012, in tre diversi procedimenti, viene condannato a complessivi undici anni e sei mesi di reclusione. Dietro le sbarre non ci torna più anche a causa di gravi motivi di salute. La sua dinastia è tutt’altro che scomparsa: il figlio, Mario Cito, si candida oggi per la terza volta consecutiva alla guida della città. «Il candidato sono io, ma il sindaco sarà papà», ha spiegato ad un quotidiano locale. È forte di un pacchetto da almeno ventimila voti e rimane uno dei papabili per il ballottaggio. La sorella, Antonella, corre per un posto nel consiglio comunale. Nella stessa lista di sempre: AT6-Lega d’Azione Meridionale. Nel 2012 ai Cito l’impresa riuscì, salvo poi perdere al ballottaggio contro l’attuale sindaco Ezio Stefano, il “pediatra dei poveri”, eletto con Rifondazione comunista nella prima consiliatura e finito a governare con Partito democratico, gli alfaniani di Ncd e l’appoggio di alcuni consiglieri fuoriusciti dalla stessa AT6, nella seconda. La sua “grossa coalizione” andava da Sel all’Udc.

 

All’ombra dell’Ilva

«Come è potuto accadere che una città non povera, né marginale, a rilevanza strategica, la Taranto siderurgica ed europea, alla quale lo Stato unitario non ha mai fatto mancare pubblici finanziamenti, sia diventa la più indebitata d’Italia e la più inquinata d’Europa?» si domanda Roberto Nistri, unico filosofo di rilievo che la città ha avuto dai tempi di Archita.

L’intera classe politica locale è stata attraversata dalla vicenda Ilva: in principio fu il sequestro, il 26 luglio 2012; poi il commissariamento statale e l’arrivo in Puglia degli emissari del ministero: i commissari straordinari Gnudi, Laghi e Carrubba; e infine i dieci decreti legge che hanno salvaguardato soltanto la produzione. Dentro Ilva, però, si è continuato a morire: sette operai sono morti negli ultimi cinque anni. L’ultimo incidente è avvenuto la mattina del 17 settembre scorso, nei pressi dell’altoforno 4. Il lavoratore si chiamava Giacomo Campo. Aveva 25 anni. Nei sobborghi popolari di Tamburi e Paolo Sesto ci si continua ad ammalare. Gli stessi studi epidemiologici della Regione confermano le relazioni di causa-effetto tra emissioni industriali e danni sanitari ed è così che Ilva riguarda ogni tarantino. Per il filosofo Nistri è questa «un’operazione di rimozione collettiva, un autentico deficit di democrazia. Sui morti ammazzati dall’industria, su tutte le deprivazioni dei diritti che avvengono in questa città, è spesso caduto il silenzio».

Nei giorni del voto si è consumata anche la battaglia decisiva sulla vendita del gruppo. Ad aggiudicarselo è stata la cordata guidata dal tycoon Lakshmi Mittal, a capo del gruppo Arcelor, e i suoi partner italiani Emma e Antonio Marcegaglia. Il piano industriale prevede un rilancio della fabbrica, aumenti di produzione e quasi il doppio dei ricavi entro il 2024 ma sul fronte dei posti di lavoro non ci sono buone notizie: massiccio uso della cassa integrazione straordinaria per arrivare infine a 5.740 esuberi entro la stessa data.

Ma sono i nomi del processo “Ambiente svenduto”, che si sta celebrando davanti alla Corte d’Assise del tribunale di Taranto, a ritornare come fantasmi nelle frenetiche settimane pre-elettorali: Nichi Vendola e Nicola Fratoianni candidano a sindaco della città l’ex Procuratore capo della Repubblica, il 76enne Franco Sebastio. Che – ironia della sorte – da magistrato ha indagato nel processo Ilva proprio i vertici dell’allora Sinistra, Ecologia e Libertà che oggi lo sostengono. Un’indagine che ha sporcato per sempre l’immagine di Sel e di Vendola e che nella testa degli elettori si aggiunge alle intercettazioni pubblicate dia giornali in cui l’ex Governatore di Regione mostrava ben più che reverenza nei confronti di Girolamo Archinà, il braccio destro della famiglia Riva. L’ex procuratore Sebastio ha l’appoggio di tre liste civiche in cui compaiono esponenti di Sinistra Italiana e Rifondazione Comunista. Hanno cercato l’alleanza, fallendo, con le liste del mondo “Dema”, che si rifanno esplicitamente allo “zapatismo meridionalista” del sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, e a livello nazionale intessono alleanze con Possibile di Pippo Civati. Sono tre anche queste ma sostengono l’allevatore Vincenzo Fornaro, balzato alle cronache nel 2009, quando il suo gregge fu interamente abbattuto perché contaminato dalla diossina sprigionata dall’Ilva. L’accordo tra Dema e i vendoliani è stato impossibile proprio per questa ragione: Fornaro e i vertici ex Sel si trovano su sponde opposte della barricata dentro le aule di tribunale.

Liste civiche, due, sostengono un altro giudice: Massimo Brandimarte, ex presidente del tribunale di sorveglianza: fama di garantista, ha scelto come capilista due poliziotti già assessori negli ultimi dieci anni. È il primato della giustizia sulla politica o della politica che usa la giustizia per saldare nuovi e antichi conti, e sembra muoversi quasi ad orologeria – per citare un vecchio must. Perché nei giorni caldi della campagna elettorale sono stati denunciati una quindicina di candidati vicini all’allevatore Fornaro o al Comitato Operai e Cittadini Liberi e Pensanti, un soggetto nato nel 2012 dopo il sequestro dell’Ilva e confluito in queste elezioni nel Movimento Cinque Stelle. Il motivo? Le contestazioni inscenate durante la visita di Matteo Renzi e dell’onorevole Michele Pelillo a Taranto. Nel luglio 2016 ma il conto, salato, è arrivato solo in queste settimane.

Nei Cinque Stelle, dopo un duro scontro covato per mesi e al termine di “comunarie” infuocate, l’ha spuntata l’avvocato Francesco Nevoli. È sostenuto dal nucleo storico di attivisti del meet up locale e dagli operai del Comitato Liberi e Pensanti. A farne le spese è stato l’altro candidato, Bartolomeo Lucarelli, portaborse dell’europarlamentare tarantina Rosa D’Amato, con quest’ultima “corrente” che continua a non accettare il responso delle votazioni online.
Stando ai sondaggi l’avvocato Nevoli è accreditato per un possibile ballottaggio e sull’Ilva non ha dubbi: «Chi parla di eco compatibilità per questa fabbrica continua a mentire ai tarantini. Non potrà esistere mai una produzione eco-compatibile. I dati sono sotto gli occhi di tutti. L’unica soluzione è un accordo di programma per la riconversione economica del territorio  per salvaguardare salute e reddito dei lavoratori, con il loro reimpiego nelle operazioni di bonifica»

Laboratorio della follia politica italiana

La follia, sullo Ionio, è bipartisan e trasversale. Il Pd schiera sette a liste a sostegno di Rinaldo Melucci, imprenditore marittimo che un anno fa parlava di rilevare Ilva attraverso il consorzio di cui è presidente: lo Ionian Shipping Consortium, «un consorzio di imprese locali costituitosi lo scorso anno per proporre i servizi dello scalo portuale di Taranto alle committenze, grandi e piccole»: da Ilva ad Eni, fino alle flotte turistiche e commerciali. Proprio un mese fa è approdata al porto la prima nave da crociera che Taranto abbia mai visto. Con il suo indotto di 1.500 turisti russi e britannici, col portafogli pieno e tanta voglia di spendere. Per la gioia del commercio locale. Una mossa economica e un piano di sviluppo previsto da mesi – assicurano lungo i moli, e non c’è da dubitarne – ma che trenta giorni prima delle urne rappresenta una geniale trovata per la campagna elettorale dell’imprenditore. Il Pd, però, si è spaccato. Una parte consistente dei dem che incarna il mondo delle professioni appoggia un altro noto impresario, Piero Bitetti, attuale Presidente del consiglio comunale, fuoriuscito dal partito.

Stefania Baldassari, direttrice del carcere di Taranto in aspettativa, si considera una candidata dal profilo civico. Ma all’interno delle sue otto liste sono confluiti pezzi importanti della classe politica cittadina. Dalle macerie di Forza Italia che si ricicla, senza troppa fantasia, con la lista Forza Taranto, ad ex assessori della giunta uscente. I notabili sono con lei, così la Direttrice non si è fatta problemi ad accettare candidature che suscitano polemiche: come quella (poi ritirata) di Aldo De Micheleex poliziotto della digos, accusato di essere la talpa dell’Ilva all’interno degli uffici giudiziari tarantini, tutt’oggi sotto processo. Non solo. Da una radiografia degli oltre duecentocinquanta aspiranti consiglieri per la Baldassari, troviamo capolavori di trasformismo. Seduti allo stesso “banchetto” Alfredo Spalluto, ex assessore ai lavori pubblici del Comune con il centrosinistra, un anno e mezzo fa candidato alle regionali con la coalizione del governatore Michele Emiliano, ma che oggi ha cambiato idea. Il nome di Spalluto compare anche in un verbale d’interrogatorio per un’indagine coordinata dal pubblico ministero Enrico Bruschi, sui lavori di ristrutturazione di edifici pubblici nella Città Vecchia, dove un imprenditore sostiene che alle scorse elezioni avrebbe chiesto ai dipendenti di votare proprio per l’ex assessore. Giovanni Guttagliere, assessore al Patrimonio in carica, e tre consiglieri di maggioranza, passano in una notte dal centrosinistra a comporre nuove liste con storici esponenti locali di Forza Italia e del movimento post fascista della Lega d’Azione Meridionale, come Giovanni Ungaro. Quest’ultimo è campione di acrobazie. Cinque anni fa eletto consigliere con il movimento di Giancarlo Cito. Poi è confluito in Forza Italia, scivolato a piccoli passi dentro il Nuovo Centrodestra e infine in Realtà Italia, lista che nella “città dei due mari” ha sostenuto la giunta di centrosinistra. Mentre si convertiva alla moderazione Ungaro non ha ovviamente detto di no alla candidatura nella lista “popolari per Emiliano” alle scorse regionali.

Nonostante la giovane età, un’altra delle donne che fanno campagna per la direttrice del carcere ha già cambiato diverse casacche: Lucia Viafora, scuola mastelliana con Udeur, eletta nella scorsa legislatura con Sel, e poi passata al gruppo consiliare di Forza Italia. Su di lei – mai indagata, va rimarcato – pende un’ombra pesante: in un’intercettazione telefonica uno dei boss storici della malavita tarantina, Giuseppe Cesario, morto tre anni fa, si vantava con il cugino Francesco Cesario: «Io l’ho messa là». I dialoghi tra boss sono una costante della campagna elettorale. L’avvocato Giuseppe Cagnetta, che si presenta con la lista Direzione Taranto con Baldassari, è finito in un’intercettazione ora agli atti del processo antimafia denominato “Alias”. Dove due malavitosi commentano così la condotta del legale: «Quello stupido è venuto da me e mi ha fatto dare mazzate al ragazzo, dice che avanzava soldi per una causa che ha fatto». Per l’episodio che lo vede coinvolto, precisano gli investigatori, «non si è proceduto per mancanza di querela di parte e il caso è stato soltanto segnalato all’ordine professionale competente».

Uomini nostri

L’operazione “Alias” della Direzione distrettuale antimafia di Lecce rivelò tre anni fa che la malavita aveva tentato di mettere (in qualche caso riuscendoci) le mani sulla città. A pagare per tutti fu l’imprenditore, già assessore comunale, esponente del partito-cartello La Puglia per VendolaFabrizio Pomes, tutt’oggi sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Una sua intercettazione agli atti racconta di un colloquio tra Pomes e il boss Orlando D’Oronzo, in cui il mai indagato Giovanni Guttagliere – nell’ultima consiliatura presidente delle commissioni Assetto del territorio, Urbanistica e attuale assessore al Patrimonio – veniva definito un «uomo nostro».

«A Taranto la campagna elettorale per il rinnovo del consiglio comunale è una maionese impazzita – ci dice proprio Fabrizio Pomes, parlando dalla città del Nord in cui si trova in regime di sorveglianza speciale – a vincere saranno gli stessi di sempre. Hanno dei nomi, dei volti: sono portatori di consensi e di interessi.  Fiutano l’aria, vedono i sondaggi, fanno due conti e capiscono con chi stare, portando in dote il loro patrimonio di consensi. In cambio ricevono elezione certa, un appannaggio e una prebenda per cinque anni».  È una storia che arriva da lontano: già nel 1991, la commissione parlamentare antimafia puntava l’attenzione sul cosiddetto “caso Taranto” che veniva definito “un’organizzazione composta da politici, imprenditori, magistrati ed esponenti delle forze armate che si prefiggevano di mettere le mani sulla città riuscendo anche ad influenzare la composizione di una giunta comunale”. Più che “caso Taranto” è il “sistema Taranto”.

Se Ilva è considerata da molti tarantini sia madre che matrigna della città, lo stesso si può dire della Marina Militare. Che da oltre cent’anni ha importanti avamposti e arsenali e non è immune alle tentazioni del malaffare. Una “tangentopoli con le stellette” è esplosa, a più riprese, dal 2014 ad oggi. Deflagrata sotto i colpi della Guardia di Finanza. E ora vede alla “sbarra” decine tra imprenditori e alti ufficiali. Secondo il magistrato Maurizio Carbone, che ha condotto le inchieste sugli episodi di corruzione e concussione avvenuti all’interno della base navale di Taranto, importante postazione italiana nel Mediterraneo, esisteva «un collaudato e stabile accordo criminoso, un vero e proprio sistema, che andava avanti da anni», dove alcuni tra gli alti militari avrebbero agito «alla stregua della malavita organizzata nei confronti degli imprenditori assegnatari di appalti e servizi».

Il passato che ritorna

Scrive l’intellettuale tarantino Alessandro Leogrande nell’ultimo libro Fumo sulla città, uscito nel 2013 per Feltrinelli, che “la città posta oggi davanti al tragico dilemma salute o lavoro è strettamente legata al suo passato prossimo, al fallimento delle partecipazioni statali, alla privatizzazione del siderurgico, all’esplosione del sistema politico e alle mattanze di mafia”. Ha ragione: a Taranto si è tornato a sparare, dopo anni. Ci sono stati due attentati ai danni delle attività commerciali di alcuni candidati. L’ultimo episodio intimidatorio è avvenuto in queste ore, il penultimo a fine maggio ai danni di Luca Contrario, 42 anni, un passato dentro i movimenti sociali della città. Attivista della rete antirazzista Campagna Welcome e presidente della cooperativa “Bottega del Mondo” per il commercio equo e solidale, Contrario è oggi uno dei candidati di punta della coalizione che sostiene l’allevatore Fornaro. Ha trovato ad attenderlo sotto casa un messaggio inquietante: il finestrino dell’auto sfasciato e alcuni suoi “santini” elettorali disposti a terra sul marciapiede. Una scena «da brivido lungo la schiena» ha scritto Contrario sulla sua pagina Facebook. «Che si sia trattato di intimidazione per il mio impegno politico, o di atto vandalico, non lo so, ma sono sempre più convinto che un’altra Taranto, diversa politicamente da questa, sia possibile».

TAG: comunali, elezioni, ilva, infiltrazione mafiosa, inquinamento, mafia, Magistratura, Mezzogiorno d'Italia, ministero dello sviluppo, politica, processi, riqualificazione, spese militari, taranto
CAT: Partiti e politici

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