La frenesia della redenzione. Singer contro Scholem

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26 Agosto 2018

Satana a Goraj (Adelphi) (1935), la prima prova compiuta di scrittura narrativa di Isaac Bashevis Singer, è molte cose. È anzitutto uno spaccato su una vicenda – il movimento mistico di Šabbetay Şevi di cui oggi, grazie soprattutto a Gershom Scholem noi sappiamo molto. Che cosa invece fosse noto nel 1935, forse ci è impossibile comprenderlo oggi. Ma è un fatto: la memoria di quel movimento (meglio di quel vissuto collettivo) doveva essere fortissima, l’entusiasmo che lo aveva accompagnato e il ritorno drammatico «a casa», doveva stare nel sottofondo dell’attesa. Confrontarsi con quella vicenda era un  modo per dire come si stava nella storia. Singer aveva allora, e ha mantenuto poi, una visione della storia opposta a quella di Scholem. Anche per questo Satana a Goraj è una lettura interessante.

Il contenuto prima. Metà del XVII secolo. La Polonia è un paese che fino a quel momento è rimasto estraneo alle ondate di antigiudaismo sanguinario che hanno attraversato il continente europeo a partire dalla fine del XIV secolo. Fino al 1647 la Polonia è un paese tollerante che ignora le guerre di religione e non condanna gli eretici, gli ebrei godono di uno statuto privilegiato e le streghe non vengono perseguitate. Tutto cambia a partire dal 1648 con la fine della guerra dei Trent’anni: insieme agli effetti della guerra, e delle epidemie si sviluppa l’antigiudaismo e la repressione della stregoneria. È la paura la macchina che muove la scia di sangue dell’anno 1648.

Goraj è uno dei tanti luoghi dove lo sterminio nel 1648 è pesante e lo sconvolgimento della comunità locale fortissimo. Conseguenza di questo clima è prima la fuga, poi un  lento ritorno, accompagnato dalla diffusione di un’aspettativa redentiva, l’attesa di un segno che indichi la fine della persecuzione.

Quel segno arriva improvvisamente con la diffusione della notizia della manifestazione di Šabbetay Şevi e l’annuncio che il momento del riscatto è vicino, la redenzione  prossima, il Messia in arrivo. L’effetto è che improvvisamente tutta la popolazione ebraica di Goraj , prima scettica, si entusiasma e modifica radicalmente il suo stile di vita. Cambiano i comportamenti: nella liceità dei costumi, nella rottura traumatica delle regole, nel rapporto uomo-donna, nelle pratiche sessuali, nelle parole che si dicono.

Il segno più evidente è dato dalla manifestazione dell’azione del “dibbûq”, l’anima di un peccatore defunto che entra nel corpo di Rechele – la possiede  e la trasforma – e che ora gran parte dei componenti della comunità ebraica di Goraj  percepiscono come il profeta. Intorno all’improvviso entusiasmo che accende la convinzione di essere prossimi alla redenzione, di non dover più subire la violenza, e perciò di sentirsi per la prima volta, dopo tanto tempo, capaci di costruirsi un futuro  a partire dal presente.

Finirà male, così come sarà più generalmente la parabola del movimento sabbatiano, con la sconfessione della annunciazione redentiva, con il ritorno lento e sconfitto nella normalità dell’attesa e del prossimo pogrom che inevitabile arriverà.

È l’epigrafe finale che chiude il romanzo che significativamente è scritta come l’epitaffio su una pietra tombale e che recita:

Nessuno si attenti a forzare il Signore a por fine

Alle nostre pene in questo mondo. Verrà il Messia

Al tempo di Dio designato, e libererà l’uomo

Da disperazione e peccato. Allora la morte

Riporrà la spada e satana perirà

Aborrito ed esecrato. Lilit

Svanirà con la notte,

L’esilio avrà fine e

Tutto sarà luce

Amen, selah

Fatto e concluso

Dunque alla fine Singer chiude il ciclo di nuovo stabilendo il tempo dell’attesa messianica oltre il proprio tempo. E soprattutto rinunciando all’ipotesi di modificare, intervenendo attivamente, il corso della storia.

L’epilogo nella sua drammaticità rende legittimo lo sconcerto di chi a digiuno della vicenda guarda la trasformazione radicale degli ebrei di Goraj. La fenomenologia dell’attesa della redenzione che Singer costruisce in questo suo primo romanzo si manifesta attraverso una crisi della ragione e un’esplosione dell’irrazionale che coinvolgono insieme la religione e il sesso.

L’ansia, ma forse più correttamente si potrebbe dire la frenesia, per la redenzione si traduce nella trasgressione. È l’aspetto che colpisce di più di questa attesa della redenzione prossima.

L’annuncio messianico, infrange il tempo, rompe le convenzioni. Le trasformazioni di chi non ha nulla e si aspetta che domani tutto cambi sta nella rottura del tempo di attesa, nella foga di riprendersi tutto ciò che gli è stato sottratto, la forza di vivere prima di tutto.

Quello che Singer costruisce con Satana a Goraj è la dimensione radicalmente alternativa dell’immaginario redentivo rispetto all’immaginario utopico, cui pure siamo soliti includerlo.

Tra l’immaginario redentivo e l’immaginario utopico cui siamo stati abituati a guardare dal XVIII secolo in poi, si da una differenza sostanziale: nessuno sa nell’immaginario redentivo che cosa sarà concretamente il dopo redenzione, ma ciò che si produce è l’anticipo della liberazione.

Se nell’immaginario utopico il problema è costituito dalla descrizione di come funzionerà la realtà societaria una volta costruita l’utopia, nell’immaginario redentivo e nella pratica del movimento sabbatiano, la redenzione si avvicina se si infrangono le regole vigenti del vivere quotidiano fino a quel momento, secondo un principio o un modello che su cui Gershom Scholem sta lavorando da almeno la metà degli anni ‘20 e che nel 1937 due anni dopo Satana a Goraj,  pubblica consegnando in quella prima prova organica (dal titolo La redenzione attraverso il peccato, Adelphi)  – testo che nient’altro è che il primo nucleo che venti anni dopo si condensa nel suo Šabbetay Şevi (Einaudi) – gran parte del profilo concettuale della sua ricerca storica: ovvero l’idea che l’esplosione dei movimenti messianici a partire dall’Età moderna, e che ha nel movimento di  Šabbetay Şevi l’espressione più dirompente, costruisce e definisce tutti i maggiori momenti successivi di pensiero ebraico, dal chassidismo all’askalàh fino al sionismo.

In quel testo del 1937 Scholem ci consegna un’idea, non solo diversa, ma radicalmente opposta al profilo che ci da Singer.

Per Scholem l’elemento dell’annuncio messianico non sottostà all’attesa di un momento di riscatto, ma è essenzialmente eresia. È voglia di futuro e intervento nella storia. Una condizione che prende atto della sconfitta, ma che non demorde. E che perciò, al contrario della conclusione a cui giunge Singer, legge nella disperazione cui muove l’insorgenza sabbatiana, e di cui pure sono testimonianza gli abitanti di Goraj, non già la chiusura di un ciclo ma la convinzione che quel segnale si costruisce con il proprio agire, forzando la storia.

La frenesia non è un inganno o un’illusione. È il motore della storia.

TAG: dibbûq, Gershom Scholem, Isaac Bashevis Singer, rdenzione, Šabbetay Şevi, utopia
CAT: Storia

Un commento

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  1. naciketas 6 anni fa

    La distinzione tra utopia e redenzione (lui parlava di profezia) si trova anche in Aldo Capitini, che proponeva una sorta di messianismo senza Messia.

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