In difesa della “Maestà Sofferente”

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12 Aprile 2019

In occasione della Milano Design Week 2019 piazza Duomo ospita la Maestà Sofferente, monumentale installazione di Gaetano Pesce che ha suscitato polemiche e proteste, in particolare da parte del collettivo femminista Non Una di Meno. L’opera, versione ingrandita di una celebre poltrona disegnata dallo stesso Pesce nel 1969, ha forme vagamente antropomorfe che evocano un corpo femminile trafitto da innumerevoli frecce e, nelle intenzioni dell’Autore, rappresenta le donne vittime di violenza; ma è stata contestata perché “reifica ciò che vorrebbe criticare (…): la donna per l’ennesima volta è rappresentata come corpo inerme e vittima, senza mai chiamare in causa l’attore della violenza”.

Certamente l’installazione non lascia indifferenti, anche perché il suo messaggio è reso particolarmente esplicito dall’uso del colore rosa carne: una scelta in qualche modo tipica per un artista ormai anziano, che forse non si sente più in sintonia con il proprio tempo e cerca di evitare di essere frainteso –  cosa che però è, suo malgrado, avvenuta.

La Maestà non è un’opera a sé stante, ma è la citazione di un pezzo di design e come tale va contestualizzata. Quando Pesce creò la serie Up per l’azienda di arredamento C&B, alla soglia degli anni Settanta del secolo scorso, la liberazione della donna era appena agli albori; dando alla sua poltrona “Up5” le forme avvolgenti di un corpo femminile privo di testa, Pesce intendeva evocare le sensazioni di protezione e accoglienza ma anche, nello stesso tempo, denunciare la condizione delle donne: “con quella poltrona ho voluto parlare di una condizione umana, la prigionia della donna vittima dei pregiudizi degli uomini”, ha spiegato anni dopo il famoso designer. L’essere umano di sesso femminile è rappresentato solamente come grembo,  ha cioè valore solo per il suo ruolo riproduttivo; la poltrona è accoppiata a un poggiapiedi di forma sferica, “Up6“, che richiama sia l’idea della gravidanza che quella di palla al piede, paralizzante zavorra – quale in effetti era, all’epoca, la maternità per le donne che volevano emanciparsi dal ruolo tradizionale di moglie e madre. L’oggetto di arredamento veniva dunque utilizzato dal suo autore come modo di parlare politicamente, sfruttando il suo potenziale nuovo di comunicazione per influenzare la cultura della sua epoca, nella logica del design radicale: in questo caso, per riproporre in modo provocatorio le rivendicazioni femministe.

Replicare la Up5 – divenuta nel frattempo un’icona del design, tanto da essere ospitata nella collezione permanente del MoMA di New York – significa dunque attualizzare il messaggio originario: secondo Pesce, ancora oggi la donna è prigioniera della sua funzione materna, malgrado decenni di lotte femministe. E’ interessante notare che l’artista non ha voluto alludere alla mercificazione sessuale del corpo femminile, ma al confinamento della donna nel suo ruolo tradizionale, ancora non superato; a ciò ha collegato, con il simbolo delle frecce, le mille violenze piccole e grandi che a quel ruolo sono associate. Quella stessa società che addita alle donne il dovere di essere madri le martirizza infatti con le ansie da prestazione indotte dal duplice compito di madri e lavoratrici, con il body shaming per il peso in eccesso dovuto alla gravidanza o con il mobbing che spesso le attende sul lavoro, al rientro dal congedo di maternità; a volte, con l’aggressione fisica e psicologica esercitata da mariti e compagni che si ritengono padroni della loro vita.

La reificazione che le attiviste di Non Una di Meno rimproverano a Gaetano Pesce è allora un potente messaggio civile: la Maestà è una denuncia della riduzione del femminile a oggetto del potere maschile, non più con l’arma delle regole sociali da rispettare ma con quella, più subdola, della violenza quotidiana. Le femministe milanesi lamentano che l’ulteriore violenza sulle donne rappresentata da quest’opera è “prodotta da un uomo” (e “all’inaugurazione ne hanno parlato soltanto uomini: quel sesso che storicamente così poco si è interrogato sul proprio essere autore di violenza e sull’immaginario cui attinge quando crea opere sul femminile”); a me pare, al contrario, molto significativo che una contestazione così pregnante alla prepotenza maschile venga proprio da un uomo.

L’ opera d’arte deve fare scandalo“, ha sostenuto Vittorio Sgarbi. La Maestà Sofferente di Pesce ha ubbidito al precetto, cosa non facile in un’epoca ormai smaliziata come la nostra; e forse l’atmosfera un po’ fighetta della Design Week aveva bisogno di uno scossone per evitare di irrancidirsi in un’autocelebrazione di maniera, come accade con gli appuntamenti fissi dedicati alla creatività italiana. Un manierismo che anche le attiviste per i diritti della donna dovrebbero sforzarsi di evitare, perché le loro buone intenzioni non finiscano per non trovare più interlocutori dall’altra parte…

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CAT: Milano

2 Commenti

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  1. dionysos41 5 anni fa

    La cultura dell’italiano medio ha solo una vaga idea di che cosa sia l’arte, che in genere viene associata a una riproduzione realista del vero. E la si vuole così. La rappresentazione simboluica è spiazzante. Oggi alla radio ho addirittura sentito dire che l’uso simbolico degli animali nell’arte offendegli animali, li degrada a oggetto, appunto li reifica. Più incomprensione di così! L’arte è sempre simbolica. E come posso rappresentare la reificazione se non simbolicamente esibendola? A ciò si aggiunga la tendenza contro tutto cil ch’è nuovo, moderno, il che conferma la cultura sostanzialmente conservatrice dell’italiano, anche per quanto riguarda l’arte. Si guardine le proteste per le messe in scena “moderne” di un melodramma. E, del resto, a Milano non si era protestato per il Teatro di Brurri, a Roma per l’edificio di Meyer che custodisce l’Ara Pacis? La disponibilitàa capire l’arte, soprattutto quella di oggi, andrebbe educata fin dalle scuole primarie. Ho visto a Zurigo coppie giovane condurre i figli appena decenni a vedere installazioni di arte contemporanea. Quel bambino a 20, 30 anni capirà il significato simbolico di ciò che vedrà, imparerà anzi anche a interpretare con occhio nuovo la realtà che vede intorno.

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  2. massimo-crispi 5 anni fa

    Riguardo a ciò che l’arte sia non saprei se debba essere unicamente il simbolo ad costituirne il fulcro e basta. Un simbolo è qualcosa che si può tirare da una parte o dall’altra, a seconda del contesto in cui si voglia inserire e quindi caricandolo di un significato o del suo opposto. Una croce uncinata può significare un simbolo solare arcaico luminoso e pieno di vita oppure un regime sanguinario che l’ha utilizzato per altri scopi, per esempio, e che ne ha determinato l’unica lettura che oggi viene fatta del simbolo stesso.
    Certe messe in scena moderne di alcuni melodrammi possono essere contestabilissime se prive di reali legami col testo letterario e musicale, i quali, volenti o nolenti, obbligano il realizzatore a confrontarvisi. E se la messa in scena moderna è una sonora scemenza, slegata dai testi suddetti, usando simboli a sproposito e shakerando qualsiasi cosa pur di far parlare di sé, resta una scemenza, perché esprime unicamente il narcisismo del realizzatore e non un arricchimento che la riproposta del melodramma in veste moderna potrebbe dare, se solo l’avesse al suo interno. Non è che chi la contesti sia necessariamente un “conservatore” come lei asserisce. Ogni volta che si espone qualcosa suppongo che da parte dell’artista ci sia l’urgenza di un messaggio da trasmettere. Se non si ha niente da dire l’opera, sia essa un oggetto o una rappresentazione, ha ben poco da dire. Può accadere che chi la osserva, anzi, la carichi di significati che non possiede, riversandoci i propri punti di vista e facendoceli entrare a forza pur di non dire o rendersi conto che quell’opera non aggiunge niente. Rimando al mio articolo sul trashic. Non necessariamente ciò che è moderno è nuovo. Il travestimento è una simulazione.
    Il bambino o lo spettatore che vede per la prima volta la Traviata in abiti moderni ma cantata in stile antico si chiederà perché non ambientarla in un manicomio, in quanto quello sarebbe il posto giusto per una siffatta operazione schizofrenica. (Forse hanno pure ambientato la Traviata in un manicomio… in Germania, terra spesso stolta e altrettanto spesso imbevuta di false innovazioni, è facile che sia successo).
    Un’opera come la poltrona antropomorfa ma trafitta può scandalizzare le femministe a oltranza perché coloro mostrano frequentemente di essere bloccate in uno stereotipo temporale e comportamentale e da lì non si spostano di un millimetro, senza capire che la realtà intorno a loro è fluida e cambia di continuo. Forse, facendole contente con un comò in forma di maschio dominatore col frustino di fronte alla poltrona trafitta, si cheterebbero.
    Io trovo che ormai la poltrona, trafitta o no, abbia fatto il suo tempo, tant’è che è storicizzata e oggetto da museo, e che forse ci siano altri modi per evidenziare in forma d’arte gli sfruttamenti e le prevaricazioni sessuali e razziali che continuano ad esserci. Manco i gommoni appesi alle finestre di Palazzo Strozzi avevano quel significato così provocatorio che è stato loro attribuito da chi ha voluto mettere in risalto quell’opera d’ “arte”.
    Lo avrebbe avuto se quei gommoni, anziché essere stati tutti uguali e anonimi (quasi viene il sospetto che ci sia una latente pubblicità per il fabbricante) avessero avuto i colori delle bandiere dei paesi che sfruttano l’Africa e i migranti, dal primo all’ultimo, Italia compresa, con le loro silhouette incluse nel gommone per farli riconoscere meglio a chi pensa che invece i paesi canaglia siano sempre e solo altri. Oltre, naturalmente, a un’azione creativa vera e propria dell’autore sui materiali utilizzati per la realizzazione dell’opera. La denuncia del fatto è facilissima, così com’è facilissimo cavalcare la tigre del momento. Meno facile è far intravedere chi ci sta dietro. E vale per tutto, dalle migrazioni a Greta Thunberg, alla famiglia naturale, alla donna schiava e a chi più ne ha più ne metta. È più scomodo. Ma per fare delle scelte così impattanti ci vorrebbe molto più coraggio e meno narcisismo e, soprattutto, sarebbero necessarie capacità analitiche che sembrano latitare.
    Volevano fare un’opera d’arte sulla femminilità trafitta ed esporla proprio nella piazza del Duomo a Milano? Bastava commissionare a un collettivo femminista un carro allegorico in stile viareggino con un similberlusconi e il suo infinito harem di femmine giovanissime e compiacenti. Una femminilità umiliata ma felice di esserlo oppure una femminilità trionfante che fa credere al dominatore di dominarla e che invece fa esattamente il contrario, visto l’alto prezzo delle prestazioni che ha scombussolato il mercato e le esilaranti vicende giudiziarie del presidente operaio? La doppia faccia dei simboli…

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