Scienziati (e intellettuali) in tempo di COVID 19

31 Maggio 2020

Un bel bailamme. Non solo il dannato virus, classificato ufficialmente con il nome di SARS-CoV-2 e causa della COVID 19 (Corona Virus Disease 19), che sta mandando in malora il sistema sanitario ed economico del paese Italia, non solo le povere vittime che non sono riuscite a superare il contagio, ma pure un incredibile inquinamento acustico e scritto da parte di sedicenti esperti e sedicenti profani che parlano a proposito e a sproposito dell’intero scibile circondante i virus, e il nostro virus in particolare, la pandemia, e la nostra pandemia in particolare. Ma chi ascoltare? Chi, fra le decine e decine di ricercatori biomedici e di clinici (e intellettuali vari) che passano nei talk show a tutte le ore, che vengono intervistati dalla stampa tutti i giorni, che intervengono sui social quando capita? Forse un paio di riflessioni non sono male. La prima riguarda una supposta divisione dei ricercatori e clinici in liberali e conservatori, una seconda su come si riconoscono (e se si riconoscono) gli scienziati “bravi”.

Cominciamo dalla prima. Sembra che un articolo di J. Fuller pubblicato sulla Boston Review, poi riportato ripreso dalla stampa italiana, abbia sollevato un certo dibattito sul fatto che esistano due scuole di pensiero che dividono i ricercatori e i clinici che si occupano di SARS-CoV-2 e di COVID 19. Da un lato vi sarebbero coloro che si interessano di epidemiologia e sanità pubblica; dall’altro lato vi sarebbero coloro che si occupano di clinica. I primi lavorerebbero su modelli e sarebbero liberali e pragmatici; i secondi lavorerebbero a stretto contratto con casi veri (i pazienti) e sarebbero metodologicamente conservatori e scettici.

In realtà, pur occupandomi da una quarantina d’anni di queste cose, non so bene che cosa significhi essere metodologicamente conservatore né che cosa significhi essere metodologicamente liberale. Mi pare una terminologia piuttosto vaga il cui significato è così tanto avvolto nel pressappochismo che nemmeno il contesto in cui è inserita la prima consente di dipanare il secondo.

Comunque sia, da una parte ci sarebbero i liberali e pragmatici ricercatori, dall’altra i conservatori e scettici clinici. “Interessante intuizione classificatrice”, si potrebbe dire. Peccato che sia solo l’ultima in ordine di tempo fra le molte che, nelle passate decadi (per non parlare dell’intera storia della scienza), sono state proposte da sociologi e antropologi della scienza (più stranieri che italiani, per dirla tutta). Tanto per rinfrescare la memoria ne ricordo alcune.

Sicuramente si sarà sentito parlare di scienziati whig e di scienziati tory. I primi derivano il nome dal lavoro dello storico H. Butterfield, che nel 1931 scrisse “The Whig Interpretation of History”. Secondo tale interpretazione, il passato dovrebbe essere visto alla luce del presente e la storia civile come un inevitabile progresso verso forme di potere politico sempre più completo e ammettente sempre più libertà, mentre la storia della scienza sarebbe una felice e inarrestabile cavalcata verso teorie sempre migliori e potenti, una cavalcata talvolta ostacolata da storicamente trascurabili momenti di abbaglio dovuti a teorie errate e a strade cieche. Butterfield prese il nome dai Whig e dal Whiggism, che fu una corrente politica durante la Guerra dei Tre Regni (Irlanda, Inghilterra e Scozia, siamo fra il 1639 e il 1651) che magnificava il ruolo del parlamento (contro il potere reale), propugnava tolleranza verso i protestanti e contrastava i “papisti” (i seguaci della Chiesa Cattolica Romana). Coloro che si opponevano ai Whig erano i Tory, e il Toryism era la loro dottrina, ossia una forma di pensiero politico basato sul conservatorismo e su un elogio della tradizione. Da quel lavoro di Butterfield, si diffuse il vezzo di distinguere lo scienziato (e la scienza) whig dallo scienziato (e dalla scienza) tory: da un lato gli innovatori e gli spiriti liberi propensi a cercare soluzioni scientifiche nuove e così agenti di un progresso inarrestabile, dall’altro, i conservatori preoccupati a difendere le teorie scientifiche coeve. Accidenti, proprio quello che Fuller indicava, seppur con nomi diversi!

Non solo, non solo. A un certo momento (siamo a una decina di anni fa) si diffuse in una parte della comunità internazionale degli umanisti che si occupavano di scienza, la moda di contrapporre gli scienziati maverick agli altri. E chi sarebbero ‘sti maverick? Ebbene, scartiamo subito di pensarli come scienziati che da giovani giocarono a basket in NBA con i Dallas Mavericks. In realtà la qualificazione prende il nome da un avvocato e allevatore texano, tale S.A. Maverick, vissuto nel 1800, che pare per primo (poi seguito da schiere di cow boy) abbia indicato con il suo nome i capi di bestiame nati da vacche in semilibertà nei pascoli e che non avevano alcun marchio per indicare di chi fossero. Insomma, gli scienziati maverick, esattamente come quei vitelli, sarebbero quelli liberi di scorrazzare fra le praterie del pensiero mentre i non-maverick sarebbero i conservatori. Ritroviamo la stessa dicotomia.

Un altro esempio, anche se la lista sarebbe lunga. Non si può, infatti, non ricordare la divisione fra scienziati normali e scienziati rivoluzionari descritta da Th.S. Kuhn in “La struttura della rivoluzione scientifiche”, uno dei libri di filosofia della scienza, siamo negli anni ’60, in assoluto più venduti, anche per la facilità del contenuto e per l’immediatezza delle tesi proposte.

Veramente per finire, mi si consenta di far tornare alla memoria la freschezza provocatoria di P.K. Feyerabend che, sia in “Contro il metodo” (siamo agli inizi degli anni ‘70) che in altri scritti, parlava con grande efficacia retorica contro gli scienziati specialisti, cui attribuiva una vita grigia e noiosa, e a favore degli scienziati opportunisti, che prendono qui e lì quello che serve. Per essere del tutto onesti, il che non è sempre richiesto nei nostri lidi, la dicotomia specialisti/opportunisti non ricalca esattamente quelle viste prima, ma a buon intenditore poche parole e dietro questa non si può non intravvedere le prime.

Insomma, da sempre vi è stato qualcuno che ha pensato che l’incipit del coro della nota tragedia manzoniana (“S’ode a destra uno squillo di tromba; A sinistra risponde uno squillo”) fosse anche un suggerimento sociologico e così ha messo in un campo gli scienziati conservatori/tory/non-maverick/normali magari anche un po’ grigi specialisti del loro campo, mentre ha inserito in quello opposto gli scienziati liberali/whig/maverik/rivoluzionari e magari anche un po’ opportunisti. Ma che sia veramente così? Mah! E chi dice ma(h), il cuore contento non ha(h)!

Sono sempre stato scettico su queste divisioni, come su qualunque tassonomia di gruppi umani in base a qualità caratteriali, specie se le classi sono due e la qualità distinguente è una. Una divisione piuttosto semplicistica e inutile a qualunque scopo se non a quello divulgativo di far capire grossolanamente (molto grossolanamente) e più o meno (molto più o meno) come stanno le cose.

In realtà gli scienziati sono degli uomini con un certo sapere tecnico e come tutti gli uomini sono un misto di onestà/disonestà, coraggio/codardia, propensità al rischio/riluttanza al rischio, vanità/discrezione, vanagloria/modestia, patologicità dell’ego/sanità dell’ego, e spasmodicamente interessati/parzialmente interessati/serenamente disinteressati a fama-denaro-potere-sesso (anche sesso, anche sesso) ecc./ecc. Ognuno, ogni uomo, ha le sue caratteristiche e chi ha l’avventura di frequentare scienziati (ma metterei anche clinici visto che stiamo parlando all’interno di questa disavventura sanitaria) se ne sarà avveduto. E se ne sarà avveduto pure chi, se provvisto di un qualche minimo senso critico, ha avuto l’insana idea di infliggersi decine e decine di inutili talk show dove scienziati bravi e scienziati cani, clinici bravi e clinici cani (e intellettuali vari) hanno inquinato l’etere incalzati da sacerdoti e adepti della dea Dulness che iniziavano il loro intervento con “Sarà, ma io credo che …”; e via con le stupidate.

Per amor di completezza, rammento che la  dea Dulness è l’eroina dell’immaginazione satirica di A. Pope che, intorno al 1730, pubblicò l’operetta “The Dunciad”, che in italiano si potrebbe tradurre con “La zucconeide”. Qui Dulness è la figlia della dea della notte, Nox, e di Chaos e il suo scopo è, nientepopodimeno, convertire il mondo alla stupidità! Come se il mondo avesse veramente bisogno che qualcuno operasse in tal senso.

Ritorniamo a noi e rendiamoci conto che qualunque divisione dicotomica, come quella di Fuller, come quella di Kuhn, come quella derivante da Butterfield, come quella di Feyerabend ecc. lascia il tempo che trova e fa piacere solo a quelli che sono di bocca buona e soprattutto maschera la complessità del fattore umano che soggiace e contestualizza qualunque attività di ricerca e clinica.

Veniamo al punto degli “scienziati bravi”. Abbiamo assistito e stiamo – ahimè – ancora assistendo a questa insania rappresentata dai talk show italiani (quasi solo italiani) gestiti da agitati presentatori che ben poco sanno di che si sta parlando e a cui han partecipato e partecipano maghi, filosofi e psicologi del banale, presunti esperti, veri esperti, starnazzanti personaggi più adusi allo sniffo e al gridio che non alla pacata discussione, giovani e meno giovani soubrette, giornalisti opinionisti su tutto ecc. A prescindere dalla possibilità che tali talk show siano oggetto di interessanti analisi sociologiche, antropologiche, psicologiche e forse anche psichiatriche, varrebbe la pena fare qualche considerazione dal punto di vista della bontà e della correttezza della comunicazione. Ma non è nemmeno questo il punto su cui mi voglio soffermare, quanto sul tema della bontà e della validità degli scienziati, un tema, questo, che non solo ha percolato fra le varie discussioni televisive ma anche ha destato interesse da parte di testate giornalistiche.

Innanzi tutto, esistono scienziati “più bravi degli altri”, ossia esistono virologi, epidemiologi, immunologi, clinici più bravi degli altri? La risposta è banale: certo, come esistono uomini più forti degli altri, che corrono più velocemente, che saltano più in alto ecc. Il problema è capire chi sono. Facile per gli atleti quando li si mette in competizione, un po’ meno per gli scienziati.

Molti han tirato in ballo l’H-index, ma questo – ahimè – non indica chi è il più bravo perché è un indice (proposto nel 2005 dal fisico J.E. Hirsch) che quantifica quanto un ricercatore è prolifico e qual è l’impatto delle sue pubblicazioni in funzione del suo numero e delle volte che sono state citate da altri. Ma non comporta affatto che se uno ha un H-index più alto di un altro è automaticamente più bravo. La faccenda non è così semplice e non è retta da un rapporto necessitante. E’ però corretto sostenere che avere un H-index alto è sicuramente un segno della presenza a livello internazionale, specie se si ha scritto in buone o ottime riviste internazionali e se chi ti cita lo ha fatto in un articolo scritto su una buona o ottima rivista internazionale. Tuttavia (data la natura non perfetta degli umani) si può avere scritto su una rivista della parrocchia e obbligare i propri amici, che pure scrivono su riviste della tua o di un’altra parrocchia, a citarti; e se il numero è sufficiente si avrà un alto H-index. Poi vi è il fenomeno delle cosiddette “riviste predatorie” (fishing journal), su cui avrebbe senso soffermarsi in un’altra occasione, la cui scientificità è assai assai dubbia, dal momento che si può pubblicare qualunque cosa … dietro un piccolo compenso monetario, ovviamente. Per cui, per avere una buona idea del valore dello scienziato in questione, non basta andare a considerare l’H-index, ma si dovrebbe anche considerare come è stato ottenuto, ossia dove ha pubblicato, chi lo cita e dove ha scritto chi lo cita.

E’ anche vero che se si è un ricercatore forte, di solito si avrà un gruppo di ricerca forte e numeroso, per cui è più facile che chi lavora con te ti citi (è il privilegio del PI, ossia del Prime Investigator, ossia del capo).

Già così la faccenda non è semplice, ma a complicarla ulteriormente ci sono altre due questioni. L’H-index medio di un ricercatore o di un clinico dipende molto dal settore in cui lavora. Innanzi tutto, di solito un clinico ha un H-index più basso (talvolta molto più basso) di un ricercatore dal momento che non deve occupare il suo tempo solo a fare ricerca e pubblicare articoli, ma dovrebbe – di solito – anche curare pazienti e – di solito – questo dovrebbe prendere tempo. Quindi, non ha assolutamente senso affermare che X è più bravo di Y sulla base dell’H-index, se il primo è un ricercatore e il secondo un clinico.

Poi vi possono essere diversità dipendenti dal settore in cui si lavora, perché diverse sono le riviste ove si pubblica. Così un fisico sanitario se ha un H-index più basso di un biologo molecolare non comporta che sia meno bravo, ma può essere che nel suo settore in media i valori siano più bassi. E lo stesso vale per un epidemiologo, per un genetista umano ecc.

Vi è poi da sottolineare che vi è una vistosa differenza fra l’H-index calcolato da Google Scholar  e l’H-index calcolato da Scopus (il database creato da Elsevier): di solito il primo è mediamente il doppio del secondo.

Tuttavia, se il tuo H-index è nullo o molto molto basso rispetto alla media del tuo settore, è anche segno piuttosto ineludibile che non hai fatto un cavolo, o che il cavolo che hai fatto era del tutto non interessante, oppure che non sei stato neppure bravo a crearti una claque di pseudo-ammiratori/seguaci/allievi devoti/amanti fedeli.

In conclusione, l’H-index è sicuramente un parametro che misura l’impatto dei lavori e della presenza, ma non è un criterio sufficiente per separare gli scienziati bravi dagli scienziati cani (un’altra dicotomia?), anche perché non è stato pensato per questo (come erroneamente molti sprovveduti pensano). Però, innegabile, aiuta a capire il ranking di uno scienziato specie per chi sa leggerlo e sa capire dove ha pubblicato quei lavori che sono citati, dove han pubblicato coloro che citano e chi sono (con chi lavorano) questi che citano.

Quanto appena detto, si noti, non vale solo per le scienze empiriche, ma anche per la filosofia (visto che è il settore che mi dà il pane tutti i mesi). Anche i filosofi hanno un loro H-index medio e se si è sopra è un buon segno; se si è sotto – ahimè – è segno della non esistenza all’interno della comunità internazionale. Per gioco, qualcuno potrebbe andare a vedere se i “grandi” intellettuali italiani sono presenti o meno in Google scholar o in Scopus e che indice hanno. Certo non potrebbe inferirne necessariamente il loro valore e il loro impatto, ma comincerebbe a farsi un’idea delle bolle italiane.

Va da sé che ognuno, specie quando si sente di aver fatto un buon lavoro, vorrebbe pubblicare su una rivista buona, o sulla più buona. Ora esistono riviste specializzate in un certo ambito di ricerca (vi sono riviste di virologia, di epidemiologia, di biologica molecolare ecc.) e riviste generaliste che accettano articoli provenienti da ogni campo (come “Nature” o “Science” per le scienze e “British Medical Journal” o “Lancet” per la medicina). Esiste, ovviamente, un loro ranking basato su numerosi parametri, su cui non ha senso soffermarsi ora (i curiosi possono dare un occhio a, per esempio, www.scimagojr.com). Si noti – per inciso – che esiste anche un ranking per le riviste di filosofia (sia generaliste come “Nous”, “The Philosophical Review” ecc., sia specialiste come “British Journal for the Philosophy of Science”, “Journal of Medical Ethics”, “Philosophy and Phenomenological Research” ecc.) o di storia della filosofia (“Journal of the History of Philosophy”, “Archiv fur Geschichte der Philosophie”, “Proceedings of the Aristotelian Society” ecc.), checché ne dicano quelli che al confronto con i propri pari in giro per il mondo preferiscono le calde e blandenti braccia dei loro parrocchiani.

E’ però altrettanto innegabile che se si fa parte di una data comunità scientifica internazionale, tutti (o meglio tutti coloro che sono onesti almeno nel loro privato e non sono stupidi) sanno chi sono i bravi, chi sono i mediocri e chi sono i cani. Vi è all’interno, per esempio, della comunità internazionale dei virologi, degli epidemiologi, degli immunologi ecc. un sapere condiviso, latente, ma piuttosto convergente su chi sono i virologi, epidemiologi e immunologi di altissimo profilo, su chi sono quelli che hanno un profilo piuttosto mediocre e su coloro che hanno avuto solo la fortuna (o l’abilità) di ritrovarsi nei posti giusti ma le cui capacità sono piuttosto scarse.

E a livello internazionale si sa chi sono – per esempio – i nostri migliori virologi, epidemiologi e immunologi (e ne abbiano di veramente eccellenti). Ma non è detto che siano quelli che appaiono di più in televisione o che scrivono di più sui giornali. La stessa cosa accade, non ci sarebbe nemmeno il bisogno di dirlo, per i filosofi, i teologi, i fisici ecc.

Per concludere, come si fa riconoscere lo scienziato bravo, il clinico bravo, il filosofo bravo, o il fisico bravo, o semplicemente l’intellettuale bravo? Semplice, si studia un po’, si va a cercare se ha un curriculum, si va a vedere se ha pubblicato, dove ha pubblicato, chi lo cita, dove lo cita, quanto ha pubblicato, se è un divulgatore o un ricercatore, se è uno storico o se è un creatore di idee, se è un racconta frottole o se sa ciò di cui parla, se parla solo del campo dove ha lavorato e ha una qualche expertise o se parla di tutto, se esprime opinioni non giustificate o se cerca di giustificare le sue posizioni ecc. Insomma, si può fare; certo, è un po’ più laborioso dell’accontentarsi dei “si dice che”, “è in televisione”, “scrive sui giornali”. Un processo certamente laborioso, ma certamente che dà maggiori possibilità di non morire a causa di qualche cialtrone.

TAG: coronavirus, Cultura
CAT: costumi sociali, Filosofia

Un commento

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  1. flavio.pasotti 4 anni fa

    un po’ di metodo scientifico nell’analisi di chi sono gli scienziati. citerò. ottimo.

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