Iranleaks, Teheran si sceglie il “nemico migliore”

23 Maggio 2023

Centinaia di documenti del Ministero degli Esteri iraniano sottratti e messi in rete da un gruppo hacker ci svelano dettagli inediti sull’azione diplomatica e le “operazioni psicologiche” di Tehran in Europa. Nel giudizio sulle forze di opposizione una curiosa convergenza tra il regime e alcuni ambienti occidentali, anche italiani.

Il 7 maggio Fox News pubblicava sul proprio sito un articolo intitolato “Gruppo hacker colpisce il Ministero degli Esteri iraniano e diffonde una miniera di dati sensibili. I documenti fatti trapelare contengono informazioni dettagliate sui tentativi dell’Iran di concludere uno scambio di prigionieri col Belgio”. La tv di Murdoch è stata una delle poche grandi testate internazionali a dare la notizia.

Secondo l’emittente americana il gruppo hacker GhyamSarnegouni avrebbe rivendicato gli attacchi a diversi siti del Ministero degli Esteri di Tehran, rimasto bloccato per alcune ore “per manutenzione”, mentre sui siti delle ambasciate iraniane negli Emirati Arabi Uniti, in Germania e Corea del Sud appariva una pagina con le immagini di Massoud e Mariam Rajavi, fondatore e attuale leader dell’organizzazione dei Mojaheddin del Popolo Iraniano e quelle dell’ayatollah Khamenei e del presidente iraniano Raisi, con una croce fatta a pennarello sul volto e in calce la scritta “Morte a Khamenei e Raisi. Viva Rajavi. In Iran è in atto una grande rivoluzione. La rivoluzione andrà avanti fino a quando la casa dell’oppressione sarà demolita. La rivoluzione democratica dell’Iran vincerà”.

Il sito del Ministero degli Affari Esteri iraniano hackerato

Dopo l’attacco gli hacker hanno iniziato a riversare sul loro canale Telegram un’ampia mole di materiale, tra cui documenti e corrispondenze del Ministero, documenti d’identità, numeri di telefono, nomi e dati identificativi della auto di oltre migliaia di suoi dipendenti, funzionari e comandanti delle milizie basij interni al ministero e persino numeri di serie di armi in dotazione agli agenti.

Scambio di prigionieri, il negoziato col Belgio

Una parte del materiale riguarda il negoziato tra Iran e Belgio per lo scambio tra il diplomatico iraniano Asadollah Assadi e il cooperante belga Olivier Vandecasteele. Assadi, diplomatico iraniano, è detenuto in Belgio, dove nel febbraio del 2021 è stato condannato a 20 anni di prigione con l’accusa di aver organizzato il fallito attentato a un incontro del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana a Parigi nel 2018. Vandecasteele, arrestato in Iran nel 2022, lo scorso gennaio è stato condannato a 40 anni di carcere e 74 frustate con l’accusa di spionaggio, collaborazione con gli USA, riciclaggio di denaro ed esportazione di capitali dall’Iran per un ammontare di mezzo milione di dollari.  Tra i leaks un documento di sette pagine indicato come la trascrizione integrale della telefonata tra il presidente iraniano Raisi e il primo ministro belga De Croo. Il materiale rivelerebbe non solo il negoziato in atto, notizia già trapelata, ma anche che questo sarebbe iniziato prima dell’arresto di Vandecasteele, dunque in assenza di ragioni umanitarie legate all’esigenza del governo belga di salvare un concittadino.

Una nota diffusa dall’Associazione Giovani Iraniani in Italia cita un rapporto di 15 pagine sul caso Assadi, che “suggerisce che sia stato proposto un trattato bilaterale per il trasferimento di prigionieri tra Iran e Belgio, nello specifico tra il cittadino belga Vandecastelee e il terrorista Asadollah Assadi” e aggiunge: “I documenti trapelati dimostrerebbero infatti che il Belgio e la Repubblica islamica avevano avuto colloqui e un accordo verbale su un ‘trattato di scambio di prigionieri’ prima che Vandecasteele fosse rapito”.

Monarchici, il “nemico migliore”

Secondo un’altra nota dei Giovani Iraniani i documenti conterrebbero anche informazioni sulla politica del regime nei confronti delle organizzazioni dell’opposizione iraniana. Nel corso di sei incontri, tra il dicembre 2018 e il gennaio 2021, tra esponenti di ministeri e organismi di sicurezza, il regime avrebbe delineato una strategia di psy-ops (operazioni psicologiche), come vengono chiamate dagli esperti,  per contrastare e screditare, in Iran e all’estero, il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana e la sua principale organizzazione, i Mojaheddin del popolo, indicati nei verbali delle riunioni come “gli ipocriti”.

Per il regime, infatti, le organizzazioni dell’opposizione non sono tutte uguali: “A differenza dei monarchici gli ipocriti hanno unità e organizzazioni coerenti. Inoltre hanno annunciato che stanno cercando di attuare un cambio di regime formando unità di resistenza. Gli ipocriti non sono un’alternativa, ma sono l’unica organizzazione che ha un piano per essere un’alternativa. Pertanto gli ipocriti cercano di rovesciare il sistema”. La frase tratta dal verbale di una delle riunioni e citata nella nota risuona quasi come se i vertici del regime indicassero i nostalgici dello scià come il “nemico migliore”, l’alternativa meno pericolosa per la propria sopravvivenza.

Dopo l’uccisione di Mahsa Amini la famiglia Pahlavi, rifugiatasi negli USA dopo la rivoluzione del 1979, sembra intenzionata a tornare protagonista, col sostegno di alcuni settori della borghesia americana ed europea. Lo scorso 10 febbraio, nel 44esimo anniversario della Rivoluzione del 1979, Reza Ciro Pahlavi, figlio dell’ultimo scià, e altre personalità iraniane popolari nel jet set americano, come la giornalista Masih Alinejad, la premio Nobel per la pace Shirin Ebadi e l’attrice Golshifteh Farahani si sono riuniti a Georgetown per lanciare un appello alla “unità dell’opposizione”. L’ex capitano della nazionale di calcio iraniana Ali Karimi, firmatario di una petizione su Change.org, “Il principe Reza Pahlavi è il mio rappresentante” (a oggi 460.000 adesioni), ha inviato un messaggio scritto.

Nonostante l’alleanza di Georgetown abbia già subito varie defezioni, nei mesi scorsi l’erede al trono ha intrapreso un lungo tour internazionale, che a fine aprile lo ha portato anche a Roma, dove ha partecipato a un convegno organizzato dall’Istituto Milton Friedman e da Unimeier insieme a un esponente della maggioranza di governo, Roberto Bagnasco, capogruppo di Forza Italia in Commissione Difesa, ha incontrato alcuni parlamentari ed è stato ospite della “terza camera” di Bruno Vespa, introdotto da un servizio di presentazione in cui si dice, tra l’altro, che “migliaia di giovani iraniani in piazza gridano il suo nome”.

Tra i curatori dell’incontro alla Camera Mariofilippo Brambilla di Carpiano, discendente di una famiglia di proprietari terrieri lombardi, “molto vicino ai Pahlavi”, il che tuttavia non gli ha impedito nel 2009 di “vivere per un periodo a Teheran quale componente di una delegazione imprenditoriale italiana che aveva come mission l’incremento dei rapporti economici bilaterali tra Italia e Iran”, come è scritto a margine di una sua intervista al “blog del Marchese”. In una puntata di “Porta a Porta” del 2016  dedicata a un’altra famiglia imperiale, i Romanov russi, il giovane Mariofilippo spiegava che “un grande paese non può vivere senza radici e che Eltsin e Putin, messi in soffitta i riferimenti all’URSS e al comunismo, hanno pensato che era necessario recuperare le profonde radici della Russia e quindi si sono ricollegati alla tradizione imperiale” e proseguiva dicendo che “oggi in Russia c’è un sistema diverso dallo zarismo, che però vive e convive molto bene…” e, ricordando con emozione che Putin ha fatto rimettere i nomi degli zar sull’obelisco davanti al Palazzo d’Inverno di Pietroburgo, “scalpellati via”  dopo il 1917 e sostituiti con quelli dei rivoluzionari comunisti: Trotsky, Lenin, Sverdlov. Forse intendeva l’obelisco del Giardino di Alessandro a Mosca e i 19 nomi sovrascritti nel 1918 andavano da Marx ed Engels a Plekhanov, passando anche per Tommaso Campanella e Thomas More, ma non includevano dirigenti bolscevichi. Quello che voleva dire, comunque, è chiaro.

Lo scorso dicembre, mentre il comitato interparlamentare sull’Iran ospitava in collegamento video Mariam Rajavi, un’altra trasmissione RAI, “Chi l’ha visto?”, intervistava la moglie dello scià Farah Diba. Tre settimane dopo anche Francesco de Leo su Repubblica intervistava l’ex imperatrice, che rivendicava l’operato del marito e auspicava la trasformazione dell’Iran in una monarchia costituzionale. De Leo, che è anche collaboratore di Radio Radicale e dell’IAI di Nathalie Tocci, è autore de L’ultimo scià d’Iran, un saggio con prefazione di Giordano Bruno Guerri, presentato alla Camera dei Deputati nel 2019 con l’intervento di Mariofilippo Brambilla di Carpiano. Nella presentazione del volume sul sito della casa editrice possiamo leggere che “la maggior parte degli iraniani non ha mai visto gli ultimi re che hanno regnato sul proprio Paese, ma tanti di loro, ancor oggi, corrono affascinati ad ascoltare i racconti dei loro genitori e a scovare vecchie fotografie di un Iran che non c’è più”.

Alla pubblica riabilitazione di una dinastia imperiale che fondò il suo potere sulla repressione brutale e sistematica di qualunque forma di opposizione, tortura ed eliminazione fisica degli avversari inclusa, si è affiancato un meno appariscente lavoro ai fianchi del CNRI repubblicano e laico. Nei mesi scorsi abbiamo assistito a manifestazioni, alcune organizzate dal Partito Radicale, con cartelli di Marjam Rajavi a testa in giù. E all’attivismo di De Leo e altri nel rilanciare severi tweet contro l’opposizione meno gradita a Tehran. Come quelle di Mariano Giustino, corrispondente di Radio Radicale dalla Turchia, che, rispolverando una definizione usata da Khomeini, scrive: “I mujahidin del popolo, MEK; d’ispirazione islamo-marxista, banditi dalla pacifica rivoluzione dei giovani in Iran, e dal Dipartimento di Stato USA perché ritenuti movimento non democratico, non rappresentativo del popolo iraniano in lotta per abbattere la Rep. Islamica”. O di un’altra giornalista di Repubblica, Gabriella Colarusso, che dopo il citato comitato interparlamentare, scrive: “Mi chiamano esterrefatti amici iraniani e mi chiedono com’è possibile che il Parlamento Italiano inviti una donna col velo (Rajavi), leader di una setta screditata presso tutti gli iraniani. Non so rispondere, dovrei dire: ‘Significa non aver capito nulla’”. “Oggi non abbiamo dubbi su chi sia il miglior portavoce del Popolo iraniano sofferente e nonostante le pressioni ricevute anche in questi giorni, – dichiarava Alessandro Bertoldi, direttore dell’Istituto Milton Friedman, incontrando Pahlavi alla Camera ad aprile – lo intendo dire con chiarezza: noi non saremo mai a disposizione di chi vuole liberare l’Iran dagli Ayatollah, ma pensa già a quale nuovo regime instaurare, non dialoghiamo con i terroristi e nessuno dovrebbe farlo, tantomeno nel nostro Parlamento”.

Monarchici iraniani, Roma, dicembre 2022

Gli autori di un vecchio rapporto di Amnesty International degli anni dello scià scrivevano “Un pesante contributo alla popolazione carceraria è fornito dai gruppi armati della resistenza islamici e marxisti (Mojaheddin e Fedayn) e dai movimenti autonomisti (curdi, baluchi e azerbaijani)”. Tra la riabilitazione dello scià e la campagna contro il CNRI, dunque, non ci sono contraddizioni.

“Serve una netta condanna”, “Regime irriformabile”

Spesso analizzando i machiavellismi della geopolitica, raccogliendo e incrociando dati e informazioni tratte da fonti lontane tra loro emergono convergenze a prima vista curiose – giornalisti progressisti e conservatori; ex militanti libertari e giovani aristocratici estimatori di Putin; fondamentalisti religiosi e del libero mercato – ma di cui in fondo è possibile decifrare la trama. Stati Uniti ed Europa, Italia inclusa, condannano, ma non sembrano troppo intenzionati ad andare oltre.

Il caso del Belgio è emblematico. “I documenti diffusi in rete mostrano che Belgio e Iran hanno siglato un preaccordo per lo scambio di prigionieri il 26 aprile 2021, reso definitivo il 31 maggio”, osserva Ghazal Afshar, dell’Associazione Giovani Iraniani in Italia, che ha diffuso l’unico materiale in italiano sui leaks, “l’impressione quindi è che Vandecasteele sia stato arrestato dal regime quasi per dare corpo all’accordo raggiunto in precedenza. Del resto l’arresto di stranieri come arma di condizionamento dei paesi occidentali è una prassi consolidata del regime, a cui purtroppo si continua a non rispondere con la dovuta decisione e provvedimenti adeguati come l’inserimento delle Guardie della Rivoluzione nella lista delle organizzazioni terroristiche e l’espulsione dei diplomatici di Tehran”. Decisione, aggiunge, tanto più auspicabile dopo che la recente esecuzione di tre oppositori ha portato il bilancio mensile dei manifestanti iraniani giustiziati a 112.

Afshar, una lunga tradizione familiare di lotta contro il regime alle spalle – il padre e la zia, militanti Mojaheddin, vennero giustiziati dal regime  nel 1988 –  respinge la ricostruzione di “Porta a Porta” sul ruolo di Reza Pahlavi: “In Iran i monarchici non hanno seguito tra la popolazione. All’estero vanno in piazza mostrando poster di Parviz Sabeti, vicecapo del Savak, la polizia segreta dello scià, [vedi l’immagine di copertina] ed è noto che Reza Ciro ha rapporti coi miliziani basij, protagonisti della repressione nell’Iran di oggi”. “All’estero”, aggiunge, “l’accoglienza delle istituzioni occidentali a Pahlavi è stata abbastanza tiepida. Nel suo tour internazionale ha incontrato singoli parlamentari, ma è stata soprattutto la stampa ad aver gonfiato l’importanza delle sue visite” osserva la portavoce dei giovani iraniani, evocando i leaks in cui esponenti del regime invitano a utilizzare tutti i mezzi disponibili, inclusi i media amici.

“Il problema di fondo – osserva Alì Ghaderi, responsabile esteri dei Fedayn del Popolo, la seconda organizzazione del CNRI – è che Stati Uniti ed Europa, a differenza di altri casi, sull’Iran non pensano al regime change, bensì che il regime sia riformabile o comunque ‘gestibile’ compatibilmente coi propri interessi, che è il motivo per cui per anni hanno alimentato aspettative illusorie nei cosiddetti riformisti alla Khatami e quando la repressione supera i livelli di guardia reagiscono più che altro per tenere a bada le proprie opinioni pubbliche”. In ogni caso, conclude, “mi pare che il cammino della rivoluzione sia iniziato”.

L’inchiesta è tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info del 23 maggio 2023

TAG: Alì Ghaderi, Asadollah Assadi, Consiglio Nazionale della resistenza Iraniana, Feday del Popolo, Ghazal Afshar, GhyamSarnegouni, Iranleaks, Mariam Rajavi, Mojaheddin del popolo, Olivier Vandecasteele, Reza Pahlavi
CAT: Geopolitica

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