Basilicata: la vita invisibile dei nomadi del pomodoro

17 Settembre 2021

 

  • In Basilicata le bidonville del pomodoro che poi magari finivano pure in tivù e mandavano la cena per traverso all’ora dei tiggì, non ci sono più. Sgomberate. Sparite. I braccianti africani che vivono nel degrado, no. Quelli esistono ancora. Stanno in casolari abbandonati, catapecchie che cascano a pezzi, tuguri da incubo.
  • Contribuiscono a un’industria da 3,5 miliardi di euro; vivono una vita zero. Zero acqua corrente, zero elettricità, soprattutto zero diritti. Molti sono “nomadi”: vengono da Puglia e Campania e finito qui, er loro, sarà subito tempo di ricominciare daccapo un po’ più a Sud, questa volta con le arance.
  • Ad accompagnarli – sempre – una vera e propria carovana: cuochi, prostitute nelle roulotte e muratori del ghetto, capaci, ad ogni tappa di questo giro infernale che per alcuni dura 12 mesi all’anno, di riparare ruderi e costruire ovunque baracche con i nostri rifiuti e la loro esperienza.
  • Su tutto l’ombra dei soliti caporali, denuncia Vincenzo Esposito, segretario della Flai-Cgil della regione lucana. Ma una nuova “minaccia” avanza: le macchine che gli stanno rubando il lavoro.

«Non si potrebbe far arrivare l’acqua?», mi domanda Denis. Potere, si potrebbe. L’acqua, anzi da queste parti è talmente buona che si è trovato perfino il modo di imbottigliarla, a milioni di pezzi, e spedirla ovunque. Per capirci: qui nel nord della Basilicata, ci sono le fonti di alcune delle minerali più amate dagli italiani e più pubblicizzate in tivù. Però, niente. Tubi o cisterne finora non sono si sono visti in quest’angolo di campagna. Con tutta probabilità non arriveranno mai.

Per il momento, comunque, Denis e gli altri braccianti africani che vivono in questo vecchio casolare abbandonato hanno trovato un sistema: vanno fino ad un abbeveratoio abbandonato, a qualche chilometro di distanza, riempiono taniche che prima contenevano prodotti chimici e chissà cos’altro e le portano fin qui. Ogni dannato giorno. Per farsi una doccia calda accendono fuochi o usano dei fornelletti a gas. Per lavare piatti e vestiti, si servono di bacinelle. Lavatrici? Non scherziamo: pure i cavi della corrente mancano.

«Un nero è sempre un nero»

L’interno di uno dei casolari abbandonati dove vivono i braccianti

Quello che non manca è l’ingegno, l’inesauribile capacità dell’uomo di adattarsi. Sempre e comunque. E così «per ricaricare i cellulari, abbiamo portato un pannellino solare, sta nell’altra stanza. Lo vuoi vedere?», mi chiede Hassane. Lui ha 44 anni e da 20 e passa gira l’Italia per raccogliere: pomodori, come qui in Basilicata; ma anche agrumi; tutto. «Faccio magari un anno, un anno e mezzo da voi e poi torno a casa, in Burkina Faso. Là coltivo mais, soya, miglio, anche un po’ di frutta e ho un piccolo commercio. Ho moglie e due bambine», mi dice sempre Hassane, mentre sullo schermo del suo telefono cellulare scorrono le foto delle bimbe, di casa: frammenti di una normalità che in questo casolare con i teloni di plastica al posto delle finestre sembra lontana anni luce. «Perché viviamo qui? Rimaniamo solo 40 giorni e siamo vicini al campo… e poi se prendessimo casa in paese magari ci disturberebbero o ci prenderebbero in giro. Io sono qui in Italia da più di 20 anni, ma sai, un nero è sempre un nero… Affittare, comunque, è complicato, molti non si fidano degli africani».

«C’est complet»

Per Denis, Hassane e gli altri in teoria una alternativa ci sarebbe. A una manciata di chilometri, c’è un centro di accoglienza aperto apposta per loro. Si trova in un paese chiamato Palazzo San Gervasio e sta in una ex fabbrica che, con i suoi muri scassati dal tempo, riassume un po’ tutta la storia. Era un tabacchificio, perché in queste campagne, fino agli anni Settanta, si coltivava tabacco. Poi i proprietari dei campi sono passati al pomodoro, ma non quello fresco, da insalata, no, quello per fare i pelati. Anzi, qui si fa forse il miglior pomodoro pelato d’Italia, sicuramente l’ultimo in ordine di tempo ad essere raccolto.

 

Siamo a poche decine di chilometri da Foggia e dal tavoliere delle Puglie che è il cuore pulsante – al Sud – della produzione del pomodoro da industria. In una sola provincia, Foggia appunto, si fa un terzo e forse più di tutti i pomodori che vengono inscatolati in Italia. Anche la Basilicata, però, non è poca roba: immaginate una distesa di dolci colline grande più o meno quanto duemila campi da calcio e copritela tutta di piante di pomodoro: ecco, questo, più o meno, è il quadrato di terra che ha per angoli Palazzo San Gervasio, Montemilone, Lavello e Venosa. E siccome siamo in collina, i pomodori, appunto, maturano dopo.

Il cancello d’ingresso del Centro di accoglienza di Palazzo San Gervasio

I braccianti africani che spesso hanno già fatto la campagna del pomodoro in Puglia o in Campania arrivano qui con un trolley a settembre, se ne ripartono a metà ottobre. Si diceva: per loro, in teoria ci sarebbe un centro di accoglienza e pure in pratica c’è. Ma quando arrivo io sul cancello c’è appeso un cartelletto scritto a mano: «Centro pieno, c’est complet, full». Più o meno duecento posti c’erano, duecento posti sono stati occupati. Chi è dentro, è dentro. Chi è fuori, è fuori.

L’emergenza che non è emergenza

«Lo sanno che finisce così: l’ex tabacchificio si riempie ogni anno. E poi ce li troviamo nei casolari…», mi dicono in coro Principia Iacoviello e Vincenzo Pellegrino, due sindacalisti della Cgil di Venosa. Manca la volontà di risolvere il problema? Scuotono la testa: «Ogni anno già da gennaio cominciamo a sollecitare Regione e Comuni, ma poi…». Poi la storia si ripete. E non da un anno o due, da decenni.

Tutto – infatti – comincia nei mitici anni Ottanta, quelli dei paninari, degli yuppies e della Milano, anzi dell’Italia da bere. I ragazzi italiani scoprivano le scarpe Timberland e i piumini Moncler. Il pomodoro, invece, passava di moda: andare a fare la campagna per tirare su qualche soldo prima dell’inizio della scuola attirava sempre meno. Forse semplicemente non ce n’era più bisogno.

E’ allora che la raccolta del pomodoro comincia ad attrarre i primi braccianti stranieri provenienti dal Maghreb: tunisini, marocchini, algerini. Poi con la caduta del Muro, tocca all’Europa dell’Est. Alla fine arrivano anche dall’Africa Subsahariana: Burkina Faso, soprattutto, ma anche Mali, Sudan, Nigeria e Gambia. Pian piano – anzi, nemmeno troppo – cambia tutto. La manodopera locale viene interamente sostituita da quella straniera. E’ un passaggio di consegne silenzioso che cambia faccia alle campagne di tutta Italia. Ma questo cambiamento non è indolore.

Telecamere e sgomberi

Le prime baracche, i primi casolari occupati spuntano in Basilicata – come in altre regioni per altro, a sud come al nord – già a fine del secolo scorso. Nel 1998, nel quadrato del pomodoro lucano, il fenomeno è talmente eclatante che le istituzioni si decidono finalmente ad intervenire. Apre un primo centro di accoglienza: ci sono 200 posti, ci vanno a vivere in 800. Si va avanti così per un decennio. Nel 2009 questo centro viene chiuso per violazione delle norme igieniche e di sicurezza. Poi si riapre. Poi si richiude. Poi si riapre ancora.

Ma cambia poco: posto per tutti in questi centri di accoglienza non ce n’è. Nascono due veri e propri ghetti: uno a Boreano, a 20 chilometri da Venosa; l’altro lungo la strada Mulini Matinelle, non lontano da Palazzo San Gervasio. D’estate le baracche esplodono di centinaia di braccianti, d’inverno rimane giusto qualcuno che lavora qui dodici mesi all’anno.

A fine 2015 arrivano pure le telecamere di Striscia La Notizia a raccontare in prima serata una vergogna senza fine fatta di sporcizia e capanne di teli di plastica, spago e polistirolo. E lo Stato si decide a battere di nuovo un colpo. Nel 2016 Boreano viene sgomberato.

Il sindacato di strada

Quest’anno anche a Matinelle, non c’è neppure una baracca. Ma un bel po’ di braccianti dormono sempre nei casolari abbandonanti. Quanti? La Cgil, per ora, stima più o meno 200. Un gruppo di volontari del sindacato, tra cui appunto Principia Iacoviello e Vincenzo Pellegrino, li vanno a visitare due volte a settimana. Portano casse d’acqua minerale, distribuiscono scarpe antifortuni per lavorare nei campi, li ascoltano. Ma anche aiutarli non è sempre facile.

Vincenzo Esposito, il segretario della Flai-Cgil Basilicata, durante una delle uscite del sindacato di strada

«Noi abbiamo un progetto che serve proprio ad affrontare i problemi di chi si trova a vivere in emergenza abitativa e lavorativa. Si chiama “Diagrammi”. Cerchiamo di coinvolgerli, ma sono scettici: molti non vogliono neppure darci le loro generalità…», mi racconta Vincenzo. Comunque.«La maggior parte delle persone il contratto ce l’ha. E’ il numero di giornate che magari poi non torna tanto…», mi spiega Principia.

Quindi capita – come si legge anche nell’ultimo report dei Medici per i diritti umani, che qui hanno operato per anni curando i braccianti –  che non lavorino in nero, ma in quello che in gergo si chiama “grigio”: il contratto c’è, ma le ore lavorate non corrispondono a quelle registrate. Così il datore di lavoro risparmia in tasse e contributi. Ma il lavoratore ha diritto a zero malattie, infortuni, ferie. E a proposito di diritti e carte in regola: secondo Medici senza Frontiere, più di un bracciante su due (57%) non avrebbe una tessera sanitaria valida, pur avendo (75% dei casi) un permesso di soggiorno. Anche curarsi, insomma, per molti è complicato.

5 euro per un cassone da 300 chili

Poi c’è il tema soldi. Quanto guadagnano? «Alcuni lavorano a giornata, altri a cottimo. Ma più di tanto non dicono. Forse gli hanno detto di non dirlo…», mi risponde Principia. E Vincenzo aggiunge un aneddoto: «Un bracciante mi dice: prendo 40 euro a giornata, lavoro 7 ore. Solo che alle 7 di sera stava ancora nei campi, quindi… Parliamoci chiaro comunque: un italiano a queste condizioni non lo farebbe mai. Il pomodoro rimarrebbe sulla pianta».

Provo anch’io a parlare di quattrini con diversi braccianti. Ricevo sempre risposte diverse. Chi mi dice di lavorare a giornata per 40, chi per 50, chi per 60 euro. Le ore passate sotto il sole non sono mai chiare. Solo uno, Daouda, mi racconta di fare a cottimo: «Quanto guadagno? Ti spiego: siamo in 8 e dobbiamo riempire due camion al giorno. Veniamo pagati a cassone: ogni cassone pesa 300 chili: se lo riempiano ci danno 5 euro. Se il pomodoro è buono, riesco anche a fare anche 20 cassoni. Se invece il pomodoro non è buono, perché c’è erba e si fa fatica a sradicare la pianta e quindi si perde tempo, ne faccio solo dieci. Dipende. Com’è il pomodoro quest’anno? Non tanto buono… Quante ore? Cominciamo alle 7, se il pomodoro è okay, alle 14 hai finito, se no…». Se no, finché non si è finito. E pace e amen.

All’alba i camion portano i cassoni vuoti nei campi, alla sera li ritirano pieni

Facendo una media di 50 euro a testa al giorno, tutta la campagna, lavorando ogni giorno, varrebbe più o meno 2000 euro. Non proprio una fortuna per uno che arriva apposta qui magari appunto da Napoli o da Foggia. Una buona fetta di questi soldi, poi, non può essere spesa per un affitto. «Tanti ci dicono: tre quarti di quello che guadagno lo devo dare alla famiglia in Africa. Ma se anche ci fossero stati più posti nel centro di accoglienza, tanti non sarebbero venuti comunque – mi spiega Vincenzo, parlando molto fuori dai denti -. Ci dicono: noi abbiamo una certa alimentazione, vogliamo cucinarci in pace; siamo tutti dello stesso paese e vogliamo stare assieme; vogliamo stare vicini ai campi… Mille ragioni, forse mille scuse… Fatto sta che poi li ritroviamo a vivere in queste condizioni degradanti».

Uomini e caporali

Ma il sospetto, però, è che la causa vera che spinge molte di questi lavoratori africani nei casolari abbandonati in realtà potrebbe anche avere carne, ossa e un nome ben preciso: i caporali. Se vuoi lavorare, devi dormire lì, nel casolare tal dei tali, perché è lì che alla mattina arriverà il pulmino del caporale per portarti nel campo.

Uno dei casolari dove vivono i braccianti africani

«E’ una storia che ha origini lontane. Prima erano italiani, poi gli italiani hanno smesso di fare questo lavoro e ora è legata ad altre etnie», mi dice Vincenzo Esposito, segretario della Flai-Cgil della Basilicata. «Il caporale è quella persona che è in grado in un minuto di trovare la squadra che ti può raccogliere i pomodori in un campo. Ma il caporale è anche quello che accompagna il bracciante a lavorare e gli fa pagare il viaggio; e gli fa pagare pure la ricarica del cellulare, e il panino da mangiare a mezzogiorno, e…». E così il salario, già magro, s’assottiglia ancora di più.

Tutto questo, mi dice con amarezza Esposito, prolifera nella «illegalità e assenza dello Stato, ma la responsabilità è in campo anche ad aziende agricole non virtuose. Per carità, qualche passo in avanti è stato fatto in questi anni, ma non è questo il modello di accoglienza che vogliamo per persone che comunque contribuiscono alla ricchezza dei nostri imprenditori e del nostro paese».

Un affare da miliardi

E quello dato da questi braccianti che girano tra Campania, Puglia e Basilicata non è un contributo di poco conto. L’Italia è il terzo paese al mondo – e di gran lunga il primo in Europa – per la produzione di pomodoro da industria: davanti a noi solo la California e la Cina.

Uno dei tanti campi di pomodori, sullo sfondo i cassoni che dovranno riempire i braccianti

Di più. Da solo l’Italia fa oltre la metà (53%) di tutti i pomodori che servono per fare conserve, pelati e polpe in Europa. Una volta lavorato e inscatolato, il cosiddetto oro rosso italiano vale – tanto per capirci e dati Ismea 2020 alla mano – qualcosa come 3,5 milIardi di euro (fatturato industriale) all’anno. La metà (1,8 miliardi) finisce esportato in Europa (Germania e Uk, soprattutto) e nel resto del mondo. E anche se negli spot delle passate e dei pelati trovare una persona nera è più difficile che imparare la Divina Commedia a memoria, di fatto nei campi è esattamente il contrario.

Ancora a mano

In Emilia-Romagna, la regione che dopo la Puglia produce più pomodoro, si usano quasi esclusivamente macchine per fare la raccolta. Tra Palazzo San Gervasio, Montemilone, Lavello e Venosa, ancora no. Le macchine ci sono anche qui, ma «il pelato è meglio farlo a mano, ha meno ammaccature», mi spiega Gervasio Ungolo, attivista dell’Osservatorio migranti Basilicata e a sua volta imprenditore agricolo. «La domanda di manodopera in questa zona è più o meno rigida: le superfici sono quelle, le attrezzature anche. Complessivamente parliamo di un fabbisogno di 900/1000 persone. Noi abbiamo analizzato per anni le liste anagrafiche dei centri per l’impiego: e infatti vengono fatti una media di 900 contratti all’anno…». Morale: «Ora che i due grandi ghetti non ci sono più – osserva Gervasio – i braccianti sono sparpagliati: stiamo parlando di un comprensorio che si estende tra tre provincie e due regioni. Sono in posti sempre più reconditi: se stanno vicini alla strada, la polizia li caccia… Ma ci sono. Noi stimiamo, in questo momento, che siano presenti circa 700 braccianti, e altre 150, forse 200 persone, che si occupano della logistica dei ghetti».

Cuochi, prostitute, muratori

Chi sono questi addetti alla logistica? Gervasio, assieme a Timothy Raeymakers, docente di Geografia Politica a Zurigo, e Mimmo Perrotta, sociologo, lo racconta anche in un capitolo del libro, “Braccia rubate dall’agricoltura”. In pratica si tratta di tutte quelle persone che accompagnano questi braccianti nel loro peregrinare in giro per l’Italia, offrendo servizi. I braccianti passano la giornata nei campi, ma a “casa” c’è chi pensa a loro. C’è chi fa la spesa e cucina e magari in ghetti stabili, cioè che restano aperti tutto l’anno, come a Borgo Mezzanone in Puglia, ha anche un vero e proprio ristorante. C’è chi procura i mobili che infatti, per quanto scassati, ho visto anche io con i miei occhi nei casolari occupati qui in Basilicata: letti, fornelli, specchi. E ci sono pure i muratori che fanno – e vendono per circa 200 euro – le capanne, o si occupano di sistemare i ruderi da occupare. Così come non mancano le prostitute. «Hai visto delle roulotte con delle ragazze? Potrebbe essere loro. Pensa che al ghetto di Matinelle un anno ce n’erano in tutto una ventina», mi spiega Gervasio.

Il binomio ghetto-caporale

I braccianti usano dei bidoni vuoti per trasportare l’acqua. Per scaldarla e per cucinare accendono fuochi.

Ma la persona più importante, dal punto di vista della logistica, è senza dubbio lui: il caporale. «Tutta l’organizzazione del ghetto – dice sempre Gervasio – è funzionale all’attività del caporale, al controllo delle squadre nei ghetti. L’acqua magari sta a dieci chilometri, come nei casolari che hai visto qui. Perché? Perché può andare a prendere l’acqua solo chi ha la macchina, che poi è il caporale. E tutti la devono comprare da lui…». Ed è sempre lui, il caporale, che magari procura oltre al lavoro, i contratti che sono necessari per avere i permessi di soggiorno. Quindi è lui a decidere anche come, dove, e quando si lavora. «Molti dei braccianti che sono qui adesso – prosegue Gervasio – a novembre vanno nella Piana di Gioia Tauro e lì restano fino a marzo. Qualcuno va anche a Cassibile, in Sicilia, a fare le patate novelle e ci sta tra marzo e maggio per poi spostarsi in Puglia dove a partire da maggio fanno la raccolta delle angurie e i pomodori. E poi si ricomincia da capo. Ma in questo giro, i braccianti seguono i caporali» che appunto trovano il prossimo ingaggio.

I furgoni

E’ tardo pomeriggio quando vedo in un parcheggio vicino al centro di accoglienza di Palazzo San Gervasio parcheggiare il primo furgoncino, poi un secondo e un terzo. Poco prima di mezzanotte, i furgoni posteggiati sono almeno una decina e rimangono lì tutto la notte. Poco prima dell’alba, però, il parcheggio riprende vita all’improvviso: i braccianti sciamano fuori dal centro di accoglienza, salgono a bordo a gruppetti e ripartono. Potrebbero essere braccianti che sono arrivati qui in macchina. Lo racconto a Gervasio che solleva un dubbio. «Potrebbero essere anche caporali. I loro furgoni portano, diciamo, dieci persone, ogni persona paga 5 euro. E mica fanno un viaggio al giorno… Pensa te quanti soldi».

Case vuote e casolari pieni

E a proposito di soldi, tanti, questa volta pubblici, dovrebbero essere spesi per realizzare un altro centro di accoglienza nel vecchio borgo di Boreano, non lontano dal vecchio ghetto abbattuto. Il borgo era stato costruito per i contadini ai tempi della riforma agraria degli anni Cinquanta, ma tanti lucani se ne sono andati al Nord, emigrati, a fare tutt’altro. E il borgo è diventato fantasma. Ora la Regione pianifica di recuperare queste case per ospitare appunto i braccianti. Potrebbe essere un altro passo avanti.

Non tutti, però, pensano sia una buona idea. Non lo pensa ad esempio Francesco Castelgrande, lucano di Venosa, ex sindacalista Usb ed ex compagno di lotte del celebre Aboubakar Soumahoro: «Pure con lui ho rotto. Tutta sta storia di andare nei campi, fare i selfie… Anche i migranti non sono contenti: dicono: non vogliamo più manifestare, tanto poi non cambia niente…».

Il borgo di Boreano

Francesco, che ora ha fondato una sua associazione, l’associazione migranti Basilicata, mi porta proprio a Boreano per farmi vedere con i miei occhi. A un crocevia di strade in mezzo alla campagna, ci sono case murate e una chiesa abbandonata. «Che senso ha farlo qui, lontano da tutto, dai paesi come Venosa, ma pure dai campi? Rischia di diventare una cattedrale nel deserto e rimarrebbe comunque una cosa a parte, un’appendice della comunità». Per Francesco le soluzioni sono altre. A Venosa ci sono non solo edifici pubblici abbandonati – un asilo, un vecchio liceo, un convento che ora ospita ambulatori – che potrebbero essere recuperati, ma soprattutto tante case vuote. «Da qui tanti sono emigrati per lavorare al nord – mi spiega Francesco -. Non dico che con i braccianti potremmo risolvere i problemi legati allo spopolamento, però, certo per loro spazio ce n’è. Con la mia associazione e con la Chiesa evangelica, abbiamo ottenuto un grande risultato. Ci siamo impegnati per trovare delle case e qui a Venosa abbiamo trovato una soluzione per 60-70 persone. Stanno qui tutto l’anno, anche se magari vanno a fare le arance in Metaponto e in Calabria…»

La fine

Saliamo in macchina e mentre rientriamo verso Venosa, Francesco si ferma per farmi vedere un’ultima cosa. In un campo di pomodori, una specie di trattore avanza lentamente “mangiando” e “sputando” pomodori in un rimorchio. «Vedi? – mi dice Francesco -. Ormai si raccolgono sempre più spesso così. I braccianti lavorano soprattutto quando piove e queste macchine rischiano di affondare nel fango. E infatti stanno lì, poveretti, a fare la danza della pioggia». E quando le macchine saranno magari ancora più efficienti e lavoreranno anche nel fango? Basta braccianti e basta baracche? «E sì. Che fine faranno, poi, questi migranti, non lo so. Meglio non pensarci…», mi risponde Francesco, mentre ormai siamo arrivati a Venosa, in fondo al nostro viaggio. Già. La tecnologia potrebbe risolvere, per così dire, il problema prima della politica. E chissà che fine faranno questi braccianti. Chissà.

TAG: braccianti, Lavoro, Pomodoro
CAT: Agricoltura, Sindacati

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