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Criminalità

L’università va in scena per dire no alla mafia

di Federico Ferri
16 Dicembre 2014

Cominciano a parlare, il volto proiettato sullo schermo al centro della scena nasconde la verità e insieme la svela: sono in mezzo a noi. Gli uomini dei clan ci sono seduti accanto. Sono alle nostre spalle. Sono ovunque. Anche sulle panche della platea del Piccolo Teatro Studio Melato, a Milano. Da qui entrano in scena per raccontare la notte dell’anima dell’affiliazione a un’organizzazione che, anzitutto – banalità del male -, si mangia la coscienza dei suoi “picciotti”, poi la loro vita intera. Ripagando il sangue con il brivido del potere. Almeno finché dura. Finché uno dei tuoi non ti tradisce, per poi nascondere le tracce, magari solo dietro a parole ben calcolate (la mafia ha sempre bisogno del “tragediatore”: uno che inventi storie credibili e sia abile a farle girare per confondere le acque, per depistare). Cinque personaggi (il sesto potrebbe essere ciascuno di noi) hanno dunque trovato il loro autore: la criminalità organizzata. E ne raccontano fieri l’avanzata, inarrestata più che inarrestabile, al Nord, in Lombardia, nel “cono d’ombra” del terrorismo (anni Settanta) e delle stragi (anni Novanta). E in particolare negli ultimi vent’anni, intanto che la Lega urlava “padroni a casa nostra”. Casa nostra è diventata cosa loro, prima con i sequestri (cominciò la mafia siciliana), poi con la ‘ndrangheta che, da Buccinasco, ha colonizzato l’intera regione con un fiume di droga, prima, cemento e rifiuti, poi (per tacere del business della ristorazione), fino ad arrivare ad allungare i suoi tentacoli sulla sanità. Intorno una società vittima, nella migliore delle ipotesi, di una psicoanalitica rimozione, nella peggiore vile o collusa, come la politica, che di quella società è espressione, la politica che con i clan ha scambiato voti con appalti e  distrazioni. Tutto questo raccontano Flavio (Albanese), Pasquale (Di Filippo), Gabriele (Falsetta), Sergio (Leone) e Tommaso (Minniti), favolosi allievi della scuola del Piccolo e personaggi cui la drammaturgia di Marco Rampoldi e Nando dalla Chiesa ha scelto di lasciare i propri nomi di battesimo, come a rendere più forte l’identificazione tra quel mondo e il nostro. Perché quel mondo è la nostra ombra, l’ombra di una sete che è anche il buio di ciascuno di noi: potere, denaro, comodità. “Nessuno si senta offeso… nessuno si senta escluso”. Così come nessuno deve sentirsi escluso dalla possibilità di dire no, di fare pesare l’alba più della notte, perché ogni notte ha un alba. L’alba di quel personaggio collettivo, che ha trovato il suo autore nella Costituzione, al quale è affidata la chiusura del racconto e la riapertura del futuro. Nelle sue parole ritornano quelle del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giorgio Ambrosoli, di Giovanni Falcone e di tutti coloro che in questo paese sono diventati degli eroi semplicemente perché sono rimasti al loro posto mentre tutti facevano un passo indietro. Nelle parole di quel personaggio collettivo si abbozza un disegno di società diversa, capace di vivere come comunità e non solo di lasciarsi vivere come somma di egoismi. D’altronde  in Grecia, alle sue origini, il teatro si rivolgeva a una comunità, a uno stato, che ne era insieme il destinatario e il committente. E questa funzione politica del teatro richiama esplicitamente Sergio Escobar, direttore del Piccolo Teatro, per presentare questa straordinaria scommessa (già vinta) di portare sul palco i risultati delle ricerche degli studenti di Sociologia della criminalità organizzata e del loro professore, Nando dalla Chiesa, che, con l’appoggio dell’Università degli Studi di Milano, ha dato per la prima volta dignità accademica al tema e una eco efficacissima al lavoro dei suoi bravissimi studenti.

E io dico no. Ogni notte ha un’alba, drammaturgia di Nando dalla Chiesa e Marco Rampoldi, regia di Marco Rampoldi, in scena al Piccolo Teatro Studio Melato fino al 21 dicembre.

legalità ndrangheta scuola teatro Università
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