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Diritti

A scuola con la febbre? La malattia è nel mondo del lavoro (e nella iper performatività)

di Caterina Bonetti
1 Aprile 2025

Qualche giorno fa Orizzonte Scuola ha denunciato sulle sue pagine una situazione di difficoltà sempre più consistente nella gestione dei bambini malati a scuola. Piccoli e piccolissimi che vengono portati in classe con la febbre o che non vengono prelevati dalle famiglie in caso i sintomi si manifestino durante le ore di lezione. Questo comporta, oltre al problema principale, ovvero la sofferenza dei bambini, un aumento esponenziale dei contagi fra compagni e personale, problemi di gestione della classe e – in alcuni casi – anche complicanze gravi per chi si ammala sul luogo di lavoro. Premesso che esiste sempre una percentuale (in questo caso ritengo davvero marginale) di persone che agiscono in volutamente in malafede, questa situazione è il frutto – marcio e perfetto – di una società che ci mette, ormai da anni, in condizione di non poter vivere secondo ritmi normali. La malattia, in una società iper performativa, non è concessa e non lo è da tempo nel mondo adulto. Ricordiamo tutti le pubblicità di farmaci che “annullano” i sintomi influenzali permettendoci di far ripartire “alla grande” la giornata, farmaci che sono nati allo scopo di alleviare la sintomatologia nel periodo di cura e riposo necessario alla guarigione. Il farmaco che abbassa la febbre non è stato pensato per farci uscire per andare in ufficio o in palestra come se nulla fosse, ma per evitare che, nelle giornate di malattia trascorse in casa, il disagio e la sofferenza risultassero eccessivi. Stesso discorso per i farmaci decongestionanti o quelli contro i problemi gastrointesinali: il farmaco lenisce il sintomo intanto che la malattia fa il suo corso, non fa scomparire la malattia. Utilizzando il farmaco sintomatico come viatico per mantenere la performatività facciamo un danno a noi stessi (perché ci vorrà più tempo per guarire) e agli altri (perché usciremo, pur ammalati, contagiando le persone con cui entriamo in contatto). E qui subentra la pressione sociale che ci impone – spesso per questioni lavorative – di non fermarci mai. Contratti di lavoro che non prevedono la malattia in primis, ma anche luoghi di lavoro in cui è prevista, ma mal vista. Non è una novità e il mondo adulto subisce questo trattamento da anni. La vera novità ora sono i bambini, che – per definizione – non performano a comando. Se il bambino si ammala a bisogno di cura, ma se la figura di cura non è messa in condizione di farlo, allora il bambino non può ammalarsi. Peccato che i bambini abbiano questa pessima abitudine di farlo, soprattutto nella prima infanzia, quando ancora maggiori sono i bisogni di assistenza. Così il farmaco diventa necessario per “far ripartire la giornata” del mondo adulto (non sicuramente quella di un bambino ammalato costretto ad andare a scuola), con genitori sempre più schiacciati fra le pretese del mondo lavorativo e le esigenze – che percepiscono bene – dei loro figli, spesso anche con grandi sensi di colpa. Figli che sono il futuro di una società costantemente preoccupata – solo a parole – del calo della natalità, ma che diventano un problema per famiglie sempre più sole, a cui viene chiesta flessibilità unidirezionale. Il lavoratore deve essere flessibile, l’organizzazione del lavoro no. Purtroppo però – di recente – si è aggiunto un altro preoccupante elemento al quadro: la malattia come elemento di “crisi” delle attività ludiche dei più piccoli, che va quindi contenuta per permettere che la festa di compleanno, la gita scolastica, la partita di calcio vada in onda lo stesso. Da qualche mese va in onda sulle reti televisive uno spot che ha proprio questo come claim per i più piccoli: andare avanti per non perdersi nulla. Sintomo placato, performance garantita. A spese della salute del bambino e dei suoi compagni? Poco importa, la casellina delle attività è stata riempita. Premesso che la salute dovrebbe essere la priorità e che un bambino malato, pur sotto sintomatico, difficilmente si può “godere” la gita fuoriporta, stiamo insegnando alle nuove generazioni che il corpo, quando ci manda un segnale, non va ascoltato. Il bisogno di cura va superato, la necessità di riposo ignorata. E stiamo insegnando che il rispetto di una scaletta predeterminata vale di più del benessere personale e di chi ci circonda. Questo è grave tanto quanto la pressione lavorativa e sociale a cui sono state sottoposte le famiglie e pone le basi per un futuro in cui la malattia verrà negata (non curata, attenzione, negata) colpevolizzando implicitamente chi non ce la fa a prendere una pastiglia e ripartire. Nel periodo pandemico ci siamo interrogati spesso sui valori alla base della necessità di un contenimento dei contagi, ma il fatto che – alla riapertura dopo il lockdown – la priorità sia stata data agli spostamenti di lavoro prima che a quelli per ragioni affettive, relazionali, personali era già un brutto segnale. Il nuovo fenomeno dell’asticella della sopportazione della malattia in contesti senza riposo e cura per i più piccoli è un sintomo preoccupante per una società in cui nessuno sembra poter stare mai fermo, per la paura di perdere il lavoro o, peggio, di perdersi qualcosa (FOMO). E anche questa è una malattia per la quale, purtroppo, non stiamo dando anticorpi cultuali alle nuove generazioni.

fomo Lavoro scuola
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