Diritti

“L’allegra e meravigliosa famigliola del bosco”. Il ruolo dei bias nella narrazione social

28 Dicembre 2025

Quest’anno sarà ricordato come l’anno durante il quale dei giudici “cattivi” hanno distrutto l’unità di una meravigliosa famiglia che aveva scelto eroicamente di vivere in mezzo alla natura, arrecando gravissimi e perpetui danni psicologici ai minori affidati ad una casa comunità.

Almeno, questo è un estratto del letame digitale che nelle ultime settimane è possibile leggere da parte di ferventi e indefessi commentatori sulle varie piattaforme social.

Al netto della vicenda, la cui storia può liberamente essere letta qui (https://www.quotidiano.net/cronaca/famiglia-bosco-palmoli-tutta-la-storia-passo-passo-verita-giudiziaria-tuen0udl), per divisiva che possa apparire la sua trattazione, almeno nei termini che seguiranno, vorrei concentrami in questa sede solamente un aspetto derivato e correlato, e segnatamente il peso che i bias cognitivi hanno avuto nella ricezione e costruzione di una narrazione sociale, non soltanto in antitesi alla vicenda stessa ma percepita anche come più vera della stessa realtà. Mi sembra, infatti, che la pulsione a commentare, soprattutto contro i servizi sociali, i magistrati, le istituzioni, lo Stato, e di conversa a favore degli eroici genitori, dei poveri bambini, della bellissima scelta di vivere isolati in un bosco, sia dettata principalmente, sebbene non in esclusiva, dal bisogno di consolidare la propria identità partecipando ad un gioco di ruolo – mi si passi la metafora – consistente nel costruire, e puntellare giorno dopo giorno, una storia sociale. Beninteso: un gioco di finzione, che quasi nulla ha a che spartire con la realtà. Per quanto riguarda la storia di quest’ultima, rimandiamo alle carte ufficiali.

Concentriamoci adesso sul ruolo attivo svolto dagli utenti social a questa stessa costruzione collettiva, perché di questo in effetti si tratta.

Tuttavia, al fine di rendere più chiaro l’esame presente, mi si consenta di aprire una breve parentesi su tre plessi fondamentali per comprendere la dinamica della narrazione in questione. A detta di Eva Illouz, in un testo di recente traduzione in lingua italiana, il periodo storico che dimoriamo coincide con la tarda modernità, ovvero con una specifica temperie culturale coincidente con la dissoluzione di quadri di riferimento comuni. Ciò ha come suo principale effetto l’emersione del ruolo delle emozioni nella vita di ciascuno, e segnatamente nella modalità di un vero e proprio filtro attraverso cui ci interfacciamo con la realtà (Modernità esplosiva. Il disagio della civiltà delle emozioni, Einaudi, Torino, 2025). In conclusione, dunque, la nostra è una società delle emozioni, e non più dei valori.

In una ipotetica linea di continuità, Martha Nussbaum ha dedicato una parte considerevole del suo percorso intellettuale, e segnatamente quello a noi più prossimo in termini cronologici, allo studio del ruolo delle emozioni in ambito etico e in ambito politico. Il dato saliente ai fini presenti è che le emozioni, essendo un elemento centrale all’interno della deliberazione della volontà, contribuiscono a costruire le identità personali dei soggetti umani (M. C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna, 2009). Negli ultimi decenni, dunque, è in corso una tendenza che sposta il discorso circa l’organizzazione dello spazio comune dai valori alle emozioni. Lo spostamento è evidente, anche nei suoi effetti: il cemento tra i membri della comunità non è più la conformità a dei valori condivisi quanto, e piuttosto, la risonanza ancorché transitoria di emozioni esperite dai soggetti nel momento incidentale del loro ritrovarsi prossimi all’interno dello spazio pubblico. In breve, mentre in precedenza i membri si riconoscevano cittadini di uno spazio comune a lungo termine, adesso i singoli si aggregano temporaneamente intorno ad un punto che suscita in loro una certa carica emozionale. Bauman già alcuni decenni fa parlava di “società liquida”, alludendo per l’appunto al fatto che le istituzioni da aggregazioni granitiche si sono trasformate in transitorie sedi di espressione del Sé individuale.

Ora, se consideriamo la metafora di poco fa, e segnatamente quella della condizione tardo moderna come il plesso ove i singoli risuonano emotivamente attorno ad uno snodo benché transitorio e applichiamo a questa stessa una sorta di interpretazione informazionale, accade che la metafora ricalca mimeticamente lo schema della comunicazione telematica: i soggetti costruiscono una realtà intersoggettiva nei termini di un’interpretazione emotiva della realtà stessa. In altri termini, alla percezione, e conseguente valutazione, della realtà, abbiamo sostituito un suo modello che diventa di per sé tanto l’unico termine di riferimento delle discussioni al riguardo quanto l’unica occasione di risonanza (o anche consonanza) emotiva. Come sostiene in maniera piuttosto originale Harari (Nexus: Breve storia delle reti di informazioni dall’età della pietra all’IA, Bompiani, Milano, 2024), la modellazione digitale del mondo non soltanto influenza la conoscenza del mondo dal momento che quest’ultima ha luogo soltanto attraverso la mediazione di detto modello informatico, ma attraverso l’interazione da parte degli utenti si costruisce una nuova “realtà” la quale, oltre a non avere più un significativo legame con la realtà effettuale, da cui in origine prendeva le mosse, finisce con l’avere un’importanza decisamente maggiore di quella originale. Anche perché viene a sua volta rilanciata dall’interazione dei soggetti umani, comportamento che moltiplica l’effetto dei vari algoritmi interessati a mantenere “incollati” gli utenti sulle rispettive piattaforme social. Questa realtà, dunque, diviene una nuova realtà in un certo qual senso ancora più reale della realtà da cui prendeva le mosse. Sui fatti si è imposta una sua interpretazione iperrealistica: un costruzionismo che suscita sinistri timori riguardo all’avvenire.

Tornando, però, al presente, conclusa la breve introduzione, pur necessaria per fornire una minima cornice di riferimento alla considerazione presente, passiamo adesso alla parte più originale del presente contributo: sui comportamenti, e sui correlati effetti, sin qui descritti incide, e non poco, l’azione di alcuni bias cognitivi. Stando a Wikipedia, in psicologia un bias cognitivo è «una tendenza a creare la propria realtà soggettiva, non necessariamente corrispondente all’evidenza, sviluppata sulla base dell’interpretazione delle informazioni in possesso, anche se non logicamente o semanticamente connesse tra loro, che porta dunque a un errore di valutazione o a mancanza di oggettività di giudizio» (https://it.wikipedia.org/wiki/Bias_cognitivo). Oggi si parla anche di epistemia, ulteriore manifestazione del disagio attuale esperito dalla nostra società. È forse l’effetto stesso dei bias: la necessità emotiva di integrare la propria identità personale con la costruzione di un’interpretazione della realtà esterna.

Sulla narrazione della famigliola del bosco, tra i tanti in azione, mi limito ad indicarne soltanto tre, non per un desiderio di rarefazione della completezza conoscitiva, ma per mere esigenze espositive: la chiarezza in luogo dell’esaustività. A mio onesto modo di vedere, i tre bias che hanno determinato la costruzione di questa mitologia collettiva iperrealistica sono i seguenti:

1) La percezione etnica dei genitori;

2) La percezione esotica della scelta deliberata dell’isolamento lontano dalla civiltà;

3) La percezione del legame biologico tra i genitori e i figli.

 

Piccola precisazione: chiamo ‘percezione’ la valutazione irriflessa che ciascun utente social compie quando entra in contatto con la vicenda in questione. Come detto, peraltro, sui fatti prevale l’emozione che ha un ruolo preponderante nella valutazione razionale della realtà medesima.

Il bias (1) spinge gli utenti ad identificarsi con i genitori i quali, essendo “bianchi”, e quindi di etnia assimilabile al nostro stile di vita, non possono che essere valutati in maniera irriflessa come del tutto adeguati a compiere le scelte necessarie atte a garantire il benessere della propria prole. Questo stesso aggettivo ‘propria’ è, a sua volta, effetto di un altro bias, ma ci arriverò tra poco. Sulla base di questo pregiudizio, pertanto, diviene incomprensibile la scelta compiuta dalle istituzioni di allontanare temporaneamente i figli dalla coppia dal momento che quest’ultima è composta da soggetti altamente desiderabili rispetto ad altri soggetti. Prova di questo pregiudizio è l’insistenza su altre etnie, anche strumentalmente da parte di uomini delle istituzioni, impegnando i lettori in strampalate comparazioni tra ‘casa nel bosco’ e ‘campeggio’ o ‘roulotte’. Certo, nello specifico il punto dichiarato è quello della assenza di servizi igienici adeguati, fonte di difforme trattamento in presenza di fattispecie unica; il punto effettivo, però, e non dichiarato, è la separazione tra soggetti moralmente degni e soggetti moralmente indegni. Un tempo, avremmo parlato di ‘razzismo’, oggi che il termine e la sua pratica sono sdoganati ci si nasconde, più o meno goffamente, dietro salti pindarici. Se i genitori sono bianchi come noi, chi meglio di noi può occuparsi efficacemente della cura e dell’allevamento della prole? Questo è, ovviamente, falso, ma non per l’emotivo sentire dei più.

Il secondo bias, invece, spinge gli utenti ad identificarsi con la scelta esistenziale compiuta non perché in effetti considerata buona, ma, e piuttosto, perché conferma in maniera irriflessa il disagio personale che esperiamo nel corso delle nostre esistenze nelle nostre città. Traffico caotico, inflazione, necessità di consumare, necessità di acquistare tutto per poter vivere, inquinamento atmosferico, inquinamento sonoro, … spinge i soggetti a sodalizzare con la coppia, risuonando positivamente davanti ad una scelta estrema che, probabilmente, nessuno di noi si sognerebbe razionalmente di compiere. In altri termini, in modo irriflesso i soggetti “ammirano” la fuga dalla civiltà della coppia, una scelta tanto eroica quanto invidiabile al punto da offuscare sino all’irrilevanza i suoi effetti negativi (isolamento sociale; scarsa igiene; mancanza di utenze; dimora fatiscente; …). La scelta romantica compiuta scalda il cuore, e l’amore è l’unica cosa che conta. Inutile rilevare che così non è, la dinamica della narrazione social non segue la verità della ragione, ma soltanto quella del cuore. Non s’intitolava un romanzo di tanti anni fa proprio “Va’ dove ti porta il cuore”?

Il terzo bias è, forse, quello più “forte” e nascosto nei commenti disseminati dagli utenti, e, per ciò stesso, utili alla costruzione della presente mitologia collettiva. Nell’immaginario social, la famiglia nel bosco conferma l’immagine romantica di una comunità unita nell’amore. D’altro canto, il trait d’union è in modo occulto la correlazione tra gli affetti familiari e la filiazione biologica. Non si dice che il gruppo presente nel bosco sia una famiglia a seguito di un legame biologico tra i genitori e i figli; si afferma che i genitori e i figli, ovvero quei genitori e quei figli, si amano, e, dunque, sono una famiglia, il cui legame nessuna forza terza, né lo Stato né i servizi sociali né i magistrati, può sognare di spezzare. Non lo si dice, ma lo si pensa: quei minori sono figli della coppia; quel gruppo è una famiglia perché i genitori sono tali biologicamente così come i figli sono tali biologicamente. Il ‘sangue’ è l’unico criterio, irriflesso ed emotivo, che tiene uniti gli adulti ai minori, e va rispettato proprio perché tale. Di conseguenza, i giudici sono stati cattivi perché hanno separato i primi e i secondi; gli assistenti sociali si sono accaniti perché hanno infranto la sacra unione biologica dei primi e dei secondi; … Il legame di sangue è non soltanto qualcosa di ampiamente sopravvalutato rispetto al suo effettivo valore evolutivo e personale, ma un pregiudizio che Monya Ferriti (Il corpo estraneo. Dentro le ideologie e i pregiudizi sull’adozione, Edizioni ETS, Pisa, 2019) chiama ‘bionormativismo’, ossia il peso dei bias cognitivi che mettono al centro il legame biologico quale fondamento normativo della famiglia. Al di fuori del legame biologico, non può esserci una vera famiglia, ma soltanto un suo eventuale surrogato. Ne consegue, dunque, che per i commentatori social non v’è alternativa possibile all’unione famigliare del gruppo isolato nella baita nel bosco. Solo che si parla di ‘amore’ e di ‘famiglia’, ma si risuona emotivamente attorno al polo ‘carne della mia carne’ e ‘sangue del mio sangue’. Quest’ultimo pregiudizio, il quale da solo spiega come mai nel nostro Paese si preferisca inseguire la medicina riproduttiva piuttosto che aprire all’istituto dell’adozione, non solo dipinge gli attori causa della separazione come ‘cattivi’ e fonte di ‘gravi ripercussioni psicologiche sui minori’, ma agita gli umori dal momento che confligge con un convincimento assai radicato ed in virtù del quale i figli sono tali nella misura in cui possono vantare un’affinità morfologica con i genitori socialmente riconosciuti come tali.

Per effetto combinato dei tre pregiudizi qui espressi, al commentatore urge ripristinare al più presto l’unità famigliare infranta piuttosto che pensare magari che per i minori sarebbe preferibile trovare una nuova famiglia. Semmai ogni sforzo dovrebbe essere intrapreso al fine di far tornare insieme sotto lo stesso tetto, benché non tanto sicuro, quei due genitori e quei tre minori perché l’amore, basato sul sangue, è tutto ciò che conta. Il resto sono perversioni, degenerazioni, crudeltà, …

Concludendo, ed utilizzando l’AI il complesso dei bias (1) – (3) contribuisce a creare la mitologia comune della famiglia felice nel bosco, come segue:

 

Ma, adoperando la stessa AI, possiamo guardare oltre la rassicurante e romantica immagine, cogliendo aspetti meno lieti e sicuramente più foschi, come nel caso seguente:

 

 

 

Tornando, per un momento a pensare in modo riflessivo, e mettendo tra parentesi l’azione potente e costante dei bias, è davvero impossibile ritenere che i provvedimenti sinora presi siano stati intrapresi proprio al fine di tutelare i diritti dei tre minori?

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