Diritti
Lettera a Hannah Arendt
Una lettera a Hannah Arendt sul coraggio di togliere al male la maschera, sul pensiero come esercizio faticoso di libertà, contro il conformismo morale e l’obbedienza comoda. Un ringraziamento per il disagio e per una politica fondata sulla responsabilità.
Le scrivo perché Lei ha avuto il coraggio di togliere al male la maschera del teatro. Ha detto che può essere ordinario, amministrativo, quasi educato. Ha detto che l’orrore non arriva sempre urlando, a volte entra in ufficio puntuale, compila moduli, firma, esegue. Nel dirlo ha tolto a tutti la scappatoia più comoda, quella che separa i mostri dagli uomini.
Le scrivo perché ha rifiutato il piacere della condanna facile. Ha scelto la parte più faticosa, che è pensare senza proteggersi dietro una tribù. Le hanno chiesto appartenenza, Lei ha risposto con responsabilità. Le hanno chiesto fedeltà a un campo, Lei ha risposto con fedeltà alla realtà. È qui che ha scandalizzato. Non nell’idea, ma nel metodo. Non nel giudizio, ma nel modo in cui lo costruisce, pezzo dopo pezzo, senza concedersi la comodità dell’odio puro.
Lei sa che l’obbedienza non è sempre paura. È spesso desiderio di ordine. È bisogno di sentirsi a posto. È quel piccolo sollievo che arriva quando qualcuno decide al posto tuo e tu puoi dire io ho fatto il mio dovere. Le scrivo perché oggi quel sollievo è tornato, solo che non indossa più una divisa. Indossa il linguaggio. Indossa la morale istantanea. Indossa l’indignazione che corre, la sentenza pronta, il tribunale che non ascolta. Non serve più un regime per produrre conformismo. Basta un clima. Basta una folla. Basta la voglia di sentirsi innocenti senza pensare.
Lei mi ha insegnato una cosa che brucia. Che la libertà non è un sentimento, è un esercizio. Che il pensiero non è una virtù decorativa, è una pratica che costa. Che quando smetti di interrogarti, diventi disponibile. Disponibile a tutto, anche al peggio, anche senza accorgertene, anche credendo di essere nel giusto.
E allora Le scrivo come si scrive a una donna che non consola. Le scrivo per ringraziarLa del disagio. Perché mi costringe a guardare dove non vorrei guardare. Dentro la macchina, ma anche dentro di me. Dentro le parole che uso, dentro la fretta con cui giudico, dentro la tentazione di delegare.
Non Le chiedo una lezione. Gliene hanno chieste già troppe, per metterLa in cornice. Le chiedo una cosa più dura e più semplice. Continui a non diventare un’icona. Continui a essere una domanda che taglia. Continui a difendere quel crinale in cui la politica non è fede, è responsabilità. Le scrivo al presente perché il presente è il luogo in cui il Suo pensiero continua a fare male.
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