
Giornalismo
Cronache di un oblio mirato
La narrazione sbilanciata tra passato e presente delle cronache di mafia e criminalità politica nella stampa italiana
La copertura giornalistica delle vicende criminali siciliane rivela un paradosso preoccupante: da un lato l’attenzione ossessiva per i cold case e i retroscena storici (dal disseppellimento del bandito Giuliano al recupero delle prove, oramai inutilizzabili, della presenza dei neofascisti durante il delitto Mattarella), dall’altro il silenzio assordante su inchieste contemporanee che scuotono le istituzioni regionali. L’operazione di febbraio contro Cosa Nostra a Palermo, con 1.200 agenti e 180 arresti, ha ottenuto risalto internazionale (un’operazione strombazzata come un colpo mortale ad un’organizzazione invincibile che a leggere le carte e le intercettazioni sembrava più una comitiva di scassapagghiari), mentre quasi nell’ombra si consuma il caso di Gaetano Galvagno, presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana (ARS), indagato per corruzione dalla procura di Palermo. L’inchiesta, coordinata da Maurizio de Lucia, dipinge un sistema di consulenze fantasma, auto di lusso gratuite fornite dalla Sicily by Car, abiti firmati e uso improprio dell’auto blu, con fondi pubblici trasformati in “bancomat personale”. Un terremoto politico che coinvolge il terzo organo dell’isola, relegato dalle testate nazionali a sporadici trafiletti (tranne che su Il Fatto, esperto del settore).
L’appartenenza politica di Galvagno – considerato il delfino siciliano di Ignazio La Russa – spiega almeno in parte il silenzio imbarazzante che circonda le accuse. Mentre la minoranza parlamentare sollecita chiarimenti e invoca una “questione morale” (e poco altro, per non fare troppo scrusciu, che non si sa mai), le fila del partito chiudono compatte attorno all’indagato, minimizzando le implicazioni sistemiche. Galvagno ha respinto ogni accusa durante l’interrogatorio, mentre la sua portavoce Sabrina De Capitani – figura chiave nello scandalo dei 4 milioni per l’evento “Sicily women and cinema” a Cannes – si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Nelle intercettazioni, la stessa De Capitani dichiarava: “No ma amore adesso inizio a fare lobby”, rivelando dinamiche da backroom a villa Dragotto. Le grandi testate preferiscono però riproporre i mantra sulla trattativa Stato-mafia o sui presunti magistrati massoni come Giovanni Tinebra, ignorando che l’evento “Un Magico Natale” al Teatro Massimo, finanziato con 198mila euro, sarebbe servito a ottenere utilità personali.
Questa cecità selettiva avviene mentre la criminalità organizzata siciliana mostra una pericolosa evoluzione. Il rapporto Dia 2024 fotografa una mafia che da tempo si è trasformata e non è più quella protagonista di libri su complotti e presunti golpe: non più solo violenza, ma infiltrazione economica, corruzione sistemica e reclutamento di minori. A Catania, i clan mostrano “vocazione imprenditoriale superiore a quella palermitana”, con investimenti nel legittimo e controllo di appalti pubblici. Il traffico di stupefacenti – in particolare il crack prodotto con know-how nigeriano – stravolge i quartieri, mentre le baby gang diventano “anticamere della mafia”, con adolescenti che ostentano pistole sui social tra musica drill e video virali. Una mutazione definita “fluida, giovane, digitale e iconica”, con reclutamento in piccoli compiti di “sentinelle” o corrieri della droga in quartieri come lo Zen, Ballarò o Librino.
L’asimmetria narrativa ha costi democratici altissimi. La fissazione per i misteri irrisolti – l’agenda rossa di Borsellino, le logge occulte, le trattative Stato-Mafia, i carabinieri e i magistrati infedeli oramai in pensione o deceduti– crea una “narrazione consolante” che assolve il presente, mentre l’omertà mediatica su casi come quello di Galvagno normalizza la commistione tra politica, borghesia locale e criminalità. La Commissione regionale antimafia ha evidenziato come la mafia controlli il territorio attraverso “una presenza meno pressante ma capillare, all’insegna del ‘pagare meno ma pagare tutti’”, con estorsioni camuffate da forniture e servizi fatturati. Eppure, mentre 30 associazioni antiracket lottano nell’isola, i direttori dei quotidiani nazionali sembrano non cogliere che le intercettazioni nella casa del presidente dell’ARS sono più rivelatrici dei fantasmi del passato sulle attuali condizioni della classe dirigente siciliana, ai più diversi livelli.
La Sicilia interessa solo come scenografia del giallo irrisolto, non come laboratorio dove un’antimafia innovativa combatte mafie mutanti e complicità delle classi dirigenti. Fino a quando non si romperà questo schema, il risveglio della società civile regionale (e nazionale) resterà un’utopia.
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