Attualità
Sempre più soli e meno influenti: i progressisti di tutto il mondo uniti nel loro sconforto
Dieci giorni dopo, la vittoria di Donald Trump sembra la più scontata e pacifica delle evidenze. Ha spazzato via tutti i racconti del testa-a-testa, tutta la retorica della sfida all’ultimo voto. Dopo una settimana e mezzo, e ben prima che Trump riprenda pieno possesso della Casa Bianca, il mondo sembra già plasmarsi e ridisegnarsi attorno al vecchio inquilino del palazzo del potere più importante del mondo. Lo si vede sicuramente a est, dove, tra le ipocrisie e i non detti di tutti, si immagina la fine del conflitto in Ucraina in maniera vantaggiosa per la Russia di Putin. Lo si vede però anche nel cuore dell’Europa, infragilita dalle debolezze politiche interne dei paesi più importanti – la Francia e la Germania, su tutti – e perfino in quella periferia dell’impero che è la nostra piccola Italia. Piovono sulla testa delle nostre istituzioni gli strali anti-giudici di Elon Musk, uomo più ricco del mondo e futuro “ministro” USA, al quale deve perfino rispondere il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, mentre analizziamo l’esito di un voto in Emilia-Romagna e Umbria di certo non decisivo, e sicuramente poco partecipato. Nel frattempo, però, è successa anche un’altra cosa: la Corte Costituzionale è intervenuta dichiarando parzialmente incostituzionale la legge sull’autonomia differenziata, uno dei (dichiarati) perni per l’attuale maggioranza di governo. Un piccolo riassunto della vicenda pare doveroso.
Giorgia Meloni e il suo partito nazionalista a trazione meridionale avevano accettato di sostenere la legge sull’autonomia differenziata, fortemente voluta da quella parte di Lega rimasta affezionata al Nord, solo per avere in cambio, dall’alleato, un sostegno pieno al premierato, voluto invece da Meloni e dai suoi Fratelli. Poi, cammin facendo, Giorgia Meloni si è accorta che entrambe le leggi, descritte come fondamentali fino a pochissimi mesi fa, sarebbero state fondamentali soprattutto per le opposizioni che – divise su tutto – si sarebbero trovate incredibilmente unite nella contrarietà a questi provvedimenti. Così, Meloni, che aveva detto che lei non tirava a campare perché voleva cambiare l’Italia, ha spiegato ai suoi Fratelli che del premierato avremmo parlato più avanti, in un futuro tutto da scoprire, ma non così vicino. E nel frattempo, appena pochi giorni fa, la Corte Costituzionale ha spiegato che la legge sull’autonomia è incostituzionale in sette diversi punti chiave. I leghisti dicono che è stato fatto salvo il principio. Gli avversari della Lega e della legge dicono che è “il colpo di grazia”, ma quella legge con ogni probabilità non avrebbe comunque mai trovato piena applicazione, date le complessità istituzionali e tecniche che ancora dovevano essere tutte affrontate per arrivare, appunto, alla piena attuazione. Sia come sia, per quel che si capisce ad oggi, la Corte Costituzionale ha scontentato sia i leghisti, perché ha ulteriormente complicato il cammino dell’autonomia, sia il Partito Democratico, perché ci sono buone probabilità che la sentenza costituzionale renda impossibile, o comunque molto meno stimolante, il referendum abrogativo, che era stato immaginato come una grande occasione di azione politica. L’unica che non sembra insoddisfatta, a ben pensarci, è Giorgia Meloni, che taglia le unghie in un colpo solo a un alleato sempre sopra le righe, e ad avversari invero non minacciosi, ma che fa piacere vedere ridimensionati – di tanto in tanto – nelle loro, pur rare, alzate di ingegno. E quindi, ragionevolmente archiviata l’autonomia cara alla Lega per mano della Consulta, e messa in naftalina per ragioni tattiche la riforma del premierato cruciale invece per la premier, la maggioranza pare privata dei tanto sbandierati scopi costituenti. Tuttavia, in questo modo, anche le opposizioni sono private di punti di riferimento forti e, salvo al momento imprevedibili rotture del patto di maggioranza, la legislatura tirerà a campare fra scelte simboliche sui diritti civili e manovre di tamponamento sui conti pubblici.
Intanto, nel mondo, vedremo davvero realizzarsi l’effetto del secondo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca. Cosa succederà davvero, concretamente, lo vedremo nel tempo. Quel che è già successo nell’intellighenzia liberal americana, e in quella mondiale, è il consolidamento di un umore e di una consapevolezza: l’essere una minoranza chiusa nelle proprie, sempre più anguste, *enclaves* urbane. Janan Ganesh, sul Financial Times di pochi giorni fa, ha espresso con chiarezza la sensazione di chi parla un’altra lingua rispetto a quella maggioritaria del mondo. Con acume e autoironia lo chiama, addirittura, il “dialetto” dei liberal, un idioma per iniziati ai misteri della superiorità, incapaci di capire che il mondo là fuori sarà anche brutto e cattivo, ma è diverso da chi vive in una bolla di privilegi e continua a chiamarli meriti e diritti. È una disamina precisa, forse perfino tardiva. Se la vittoria di Trump e le sue conseguenze dovessero servire a rendere questa consapevolezza condivisa nelle classi dirigenti liberali e progressiste, sarebbe già qualcosa.
Devi fare login per commentare
Accedi