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“Markale – Les roses sont faites” dal monologo alla coralità teatrale: intervista all’autore
Il teatro civile di Antonio Roma si distingue da sempre per la capacità di toccare nel profondo la coscienza dello spettatore. Ne è una prova eloquente Markale, un monologo intenso che ha attraversato l’Italia con oltre cinquanta repliche, coinvolgendo sia il pubblico generale sia le scuole. Oggi quel monologo apre la strada a una nuova fase creativa, segnando l’inizio di un’evoluzione: Markale si trasforma e diventa racconto corale. Dopo il successo della produzione speciale Markale – Les Roses Sont Faites, il monologo torna ora disponibile per una nuova tournée. Resta attivo anche il podcast dedicato, mentre per il 2026 è prevista la realizzazione di un’opera inedita ambientata ancora una volta a Sarajevo. Anche questa sarà diretta da Antonio Roma, ma vedrà un cast completamente rinnovato rispetto sia alla versione originale sia alla produzione-evento recente. A trent’anni dall’eccidio del 1995, Markale si rinnova con una forma corale che dà voce a una pluralità di sguardi. Nella nuova versione, scritta da Benedetta Carrara e dallo stesso Roma, e diretta ancora da lui, tre interpreti femminili – Camilla Petrocelli, Giorgia Forno e Nela Lucic – danno corpo e voce al racconto. Questa nuova produzione non si limita a ricordare: diventa testimonianza attiva, che interroga il presente e invita a non dimenticare, affinché la storia continui a essere terreno fertile per costruire un futuro più consapevole. In un’intervista esclusiva, Roma racconta l’ambizioso progetto.
Com’è nato il bisogno di raccontare proprio questa storia, e in questa forma?
Il bisogno è nato da una necessità personale e artistica di entrare in contatto con le ferite ancora aperte dell’Europa. “Markale” è nato dal desiderio di ascoltare e dare voce a chi ha vissuto l’assedio di Sarajevo sulla propria pelle, fuori dai codici giornalistici e più vicino alla carne della memoria. Come artista, cerco sempre luoghi di frizione, zone d’ombra dove la parola può tornare a essere necessaria.
Come avete affrontato il processo di selezione e rielaborazione dei racconti?
Abbiamo lavorato come si lavora su una partitura musicale. Le 150 ore di testimonianze sono state ascoltate più volte, cercando il ritmo interno delle voci, i silenzi, i respiri. La selezione è avvenuta con rispetto chirurgico: tagliare senza mutilare, cucire senza mascherare. L’autenticità delle voci non andava interpretata, ma amplificata.
Qual è stato l’approccio umano e professionale nel creare un clima di fiducia?
L’approccio è stato quello dell’ascolto radicale. Non ci si può presentare con un microfono acceso e basta: serve esserci con tutto il corpo, mettere da parte l’ego artistico e diventare spazio. La fiducia nasce dal riconoscimento reciproco: io ti ascolto perché so che tu puoi insegnarmi qualcosa che non troverò in nessun libro.
In che modo la trasformazione del podcast in monologo teatrale ha arricchito la narrazione?
Quando la voce si fa corpo sul palco, qualcosa cambia profondamente. Il teatro consente un’esplorazione più fisica, più viscerale della memoria. Le parole si incarnano, diventano sguardo, gesto, assenza. È una forma di testimonianza incarnata, che restituisce alla storia il suo lato irripetibile e umano.
Cosa puoi anticiparci sulla nuova produzione prevista per il 2026?
Sarà un nuovo attraversamento, sempre legato alla testimonianza ma con uno sguardo più ampio sul concetto di confine. Non solo geografico, ma anche identitario, linguistico, affettivo. Continueremo a lavorare con voci reali, ma cercando un’interazione ancora più stretta con la drammaturgia contemporanea.
Quanto è difficile raccontare un dramma collettivo senza appesantirlo con giudizi o ricostruzioni politiche?
È difficile ma necessario. Come dico spesso, non mi interessa raccontare la guerra in quanto tale, ma cosa resta nelle vite delle persone dopo che la guerra è passata. Raccontare senza giudicare significa ascoltare fino in fondo. Significa restare nella zona grigia, dove la storia non è mai netta ma complessa, dolente, umana.
Qual è il messaggio più forte che sperate arrivi agli ascoltatori del podcast?
Che la memoria non è un esercizio nostalgico, ma un atto politico e poetico. Il podcast ci permette di restituire dignità alle voci che altrimenti resterebbero inascoltate. In un tempo che corre verso l’oblio, fermarsi ad ascoltare è già resistenza.
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