Mondo
Quello che resta: la sconfitta delle nostre democrazie
È passato ormai un anno da quando, su queste pagine, abbiamo iniziato a raccontare, con dolore e inquietudine le guerre infinite, la frantumazione dell’ordine mondiale, gli eccidi senza limiti, la moltitudine di morti inique. Debolezza ed insufficienza di una politica di messaggi, appelli e mere esortazioni morali che, come abbiamo visto, i protagonisti dei conflitti, stati, eserciti, forze irregolari, galassie terroristiche, governi, apparati stanno rispedendo indietro al mittente, senza porsi troppi problemi e remore. Le cronache dei contatti, dei colloqui diretti o indiretti tra le parti che pure sono in essere, sembrano funzionali solo a pause tra una fase del conflitto e quella successiva.
Da quando il sovversivismo autoritario di Trump annunciava che avrebbe posto fine hic et nunc ai due principali fronti di conflitto, Putin e Netanyahu hanno cercato di definire i rapporti di forza a proprio vantaggio, a suon di bombardamenti, in funzione di tregue trattative che sembrano non arrivare mai, che in realtà non si vogliono perchè si aspira alla vittoria totale sul nemico. In tutto ciò, per quanto la cosa possa apparire cinica, il numero delle vittime è totalmente irrilevante.
Nell’attuale scenario internazionale, si sono confermate alcune linee di futuro che riflettono la profondità delle trasformazioni e delle sfide in corso.
La fine della cooperazione multilaterale e il ritorno della politica di potenze: il disordine internazionale attuale che ha il suo perno nella frammentazione delle alleanze e nell’impotenza dell’ ONU e altre istituzioni internazionali, incapaci di gestire crisi multiple e simultanee.
La polarizzazione politica ed economica: un antagonismo tra blocchi geopolitici e la mancanza di un ordine condiviso accentuano sempre più l’instabilità e la difficoltà di prevenire escalation regionali e globali.
Il rischio di “normalizzazione” del disordine: si va verso una lunga fase di convivenza con l’insicurezza e la guerre , sia sul terreno che commerciali , come dimensione ordinaria della politica , in assenza di un cambiamento di paradigma, in un’epoca di tecnologie sempre più sofisticate, rischi acuti e necessità allo stesso tempo di cercare nuove forme di confronto e sicurezza collettiva.
Diventano fondamentali a questo punto la resilienza sociale e la capacità di adattamento. Ma per poter fare ciò, dobbiamo guardarci in volto e fare un discorso di verità, come ha fatto con grande lucidità la scrittrice , saggista e dissidente turca Ece Temelkuran sulle pagine di Internazionale.
Dopo esserci abituati negli ultimi anni, alla retorica che chiude sempre ogni articolo, analisi, manifestazione, discorso e atto politico con una nota positiva sulla democrazia, abbiamo paura di dirci che, sino ad ora, siamo stati “sconfitti”. Eppure, riconoscere la sconfitta attuale delle nostre democrazie è l’occasione di liberarsi dalla sfibrante messinscena che continuiamo a interpretare da tre anni. C’è un’umiltà politica e morale nella sconfitta e, soprattutto, ci richiama alla solidarietà e ad una resilienza autentica.
Ma se non smettiamo di recitare, continueremo a rimandare l’urgenza e il bisogno vitale di alzare il livello del nostro agire politico. Nulla è perduto, ma cosa rimane? Cosa rimane delle involuzioni e rivoluzioni, dei progressi e delle regressioni che abbiamo attraversato in questi anni?
Stiamo vivendo un momento straordinario di cambiamenti strutturali che mettono tutto e tutti in discussione e che alimentano, paure, speranze, insicurezze, sogni e visioni distopiche. Mutamenti che ci interrogano, mai come ora, sull’importanza della completezza, della natura e delle fonti di informazioni, su aspetti decisive dell’economia, del commercio internazionale e della globalizzazione, elementi che hanno un ruolo determinante nelle nostre democrazie, nella costruzione di un senso comune, nel posizionamento politico sia dei partiti che delle organizzazioni di interesse e della società civile.
Non a caso le forze ostili alle democrazie stanno puntando sforzi e risorse immani, uomini e mezzi sulla disinformazione, una guerra ibrida per costruire un consenso pre-politico sulle scelte decisive e strategiche di un paese. I flussi informatici e informativi che letteralmente ci attraversano e sui quali formiamo ora le nostre identita’ stanno provocando un mutamento profondo. Le tecnologie digitali stanno incidendo sul quadro antropologico, riplasmando le fonti stesse della conoscenza e le facoltà cognitive individuali e collettive. Viviamo una rottura tecnologica evolutiva epocale.
Mentre i grandi mediatori istituzionali, politici e statuali faticano a ritrovare un loro nuovo ruolo, persino l’assetto educativo e formativo è in crisi. Le informazioni diffuse, alimentate dai vari google, chat gpt, wikipedia e social, hanno fatto saltare la sacralità del sapere. In questo cambio di paradigma sociale e culturale che formazione? Che idea si sta affermando di sé e degli altri? della propria comunità di appartenenza?
Soprattutto in quei contesti in cui la società multiculturale, con tutte le sue contraddizioni di vita reale e di identità, si è già concretizzata e in cui siamo oltre l’orizzonte monoculturale e mono etnico e religioso in cui sono cresciute le nostre generazioni fino a 15/20 anni fa. Siamo in una terra di mezzo, affrontiamo un percorso che non ha più rotte prestabilite.
Nella fasi della vita (in un flusso e con scansioni di tempi di vita e di lavoro ormai indistinti) i cambiamenti arrivano in modo immediato: si sarebbe voluto avere più tempo, per parlare, per capire, per confrontarsi e passare delle esperienze. Non si può, la realtà è arrivata prima. Non siamo pronti alla velocità di queste trasformazioni, di queste continue accelerazioni della storia, per questo bisogna perciò avere, non solo capacità d’ascolto, ma anche sempre di ridiscussione. Non dare nulla per scontato.
Chi si confronta con le giovani generazioni, si rende conto di questo passaggio leggero, di questa appartenenza debole e volatile, di questa delega sempre pronta ad essere ritirata, di queste identità incerte. E noi non possiamo limitarci a stigmatizzare , ricordare il tempo che fu, illudersi di tornare indietro, perché la persona che hai davanti ti interpella per quello che è, non per quello che vorremmo che fosse, chiede una risposta, un orientamento, un ascolto, oppure semplicemente chiede di poter esserci.
Le organizzazioni, gli attori istituzionali, i soggetti politici tutti possono e devono assumere queste consapevolezze. Perché se spostiamo lo sguardo verso strati di storia più profondi e remoti , ci rendiamo conto che quella politica ,quelle narrazioni forti e valoriali senza le quali sembra di aver perso ogni riferimento, sono sempre stati dei mezzi, mai dei fini in se stessi, ma solo degli strumenti attraverso i quali si cercava di realizzare una tensione e una spinta molto anteriore:
L’idea che una volta eravamo soliti rappresentare come lotta e utopia di un emancipazione radicale e che ora ritorna come possibilità di una conquista sostanziale della propria pienezza individuale, fuori da ogni condizione di minorità precostituita per tutte le donne e gli uomini del nuovo millennio.
Non vi è alcun motivo di abbandonare questi pensieri solo perché le vie che lo hanno reso famigliare si sono chiuse ed hanno esaurito da tempo il loro compito. la difesa dei “piccoli” , la protezione e la tutela dei diritti e la dignità delle persone, l’emancipazione dei popoli rappresentano un fine ancora attuale , consapevoli ormai che l’umanità violata non conosce confini né geografiie .
Ricordo le parole di Gustave Flaubert che Marguerite Yourcenar rievoca nel Taccuino di appunti per le Memorie di Adriano: “Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non era ancora arrivato tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico nella storia in cui e’ esistito l’uomo, solo”. Nulla più di questa frase può fare sintesi migliore dell’analogo sentimento di spaesamento che anche noi stiamo vivendo, il segno, la cifra che sembra segnare la nostra contemporaneità.
Gli stati assoluti posero fine alle guerre civili e religiose europee nel XVII secolo e riuscirono a imporre la pace perché progressivamente presero il monopolio della forza, disarmarono le fazioni stabilirono sistemi legali, giudiziari, statuali unificati e unificanti.
Thomas Hobbes diceva “auctoritas, non veritas, facit legem”, il diritto e la ragione, la giustizia e ingiustizia in astratto non hanno luogo. Laddove non esiste un potere comune, non esiste legge; dove non vi è una legge non vi è giustizia. Come allora, oggi solo un patto politico fra stati che faccia nascere uno o più soggetti internazionali neutrali, terzi, che assumano su di sé il monopolio dell’uso della forza, potranno contenere con la diplomazia e la deterrenza, gli imperialismi e la volontà di potenza e di dominio. Consapevolezza che solo la forza dei diritti umani e un insieme di istituti, strumenti e apparati sanzionatori in grado di renderli effettivi, applicarli e difenderli, garantiranno la pace del futuro.
La fine di un’epoca storica, le crisi globali, le guerre totali che mettono in discussione modelli di sviluppo e di vita e le sue prospettive future, i processi di trasformazione identitaria e culturale, ci fanno testimoni, spettatori, ideatori, protagonisti o comprimari di un tempo unico della storia. Tutto è in ridiscussione: i vecchi mondi sono tramontati e i nuovi non sono ancora arrivati , ma ne scorgiamo le tracce: esperienze liminari, visioni, traumi, trasformazioni ominescenti, elementi di tenuta e discontinuità che si alternano nel tempo e i cambiamenti sono tali che, probabilmente, solo alla fine quando si saranno pienamente dispiegati ne scorgeremo e ne ritroveremo il profilo netto, gli elementi di valore di continuità e di senso.
http://osservatoriointernazionale.com
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