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Srebrenica: l’estate che sciolse la nostra innocenza
Il genocidio commesso dalle milizie nazionaliste serbe e reso possibile anche dalla colpevole passività del contingente olandese di caschi blu, che non garantì la sicurezza della cittadina né la protezione dei civili, il piu’ tragico fallimento dell’ Onu
Molto tempo è trascorso da quando sentimmo la voce che si spargeva tra le case e le vie del paese, i resti recuperati e portati al centro di Sanski Most per il riconoscimento. Dopo anni nei campi profughi bosniaci in Slovenia, percorrevamo quella strada che attraversava la Bosnia, Blue Bird l’avevano soprannominata le truppe Nato della SFOR: il coprifuoco la sera, cavalli di frisia e filo spinato nelle zone dei confini interni. Attorno a noi cimiteri ovunque, rovine, città sventrate, segni e racconti dei rastrellamenti, rappresaglie, stupri, deportazioni, eccidi.
Come il cortile di quella scuola a Biljani, dove i civili erano stati rinchiusi e poi uccisi a gruppi di cinque. In quel cortile, decine di precarie steli di legno, conficcate nel prato che circondavano l’edificio, tombe provvisorie che non si ebbe il coraggio di fotografare. Uno sgomento paralizzante. Poi si venne a sapere di Srebrenica, il più terrificante e osceno massacro di 9.000 bosniaci musulmani, poi gettati in fosse comuni, il genocidio avvenuto l’11 luglio del 1995. L’estate che sciolse le menti, i corpi e le memorie di un’innocenza europea che pensavamo fosse per sempre.
Come aveva previsto anni addietro Primo Levi, l’orrore e l’indicibile si era ripresentato, 50 anni dopo Auschwitz. Un genocidio commesso dalle milizie nazionaliste serbe e reso possibile anche dalla colpevole passività del contingente olandese di caschi blu, che non garantì la sicurezza della cittadina né la protezione dei civili, segnando uno dei fallimenti più tragici nella storia delle missioni di pace delle Nazioni Unite. Srebrenica simbolo della volontà di annientare di un’intera comunità nazionale, quella bosniaca-musulmana, in una guerra iniziata quattro anni prima che nessuno fu in grado di fermare, la prima in Europa dopo il 1945.
Un conflitto, quello jugoslavo, scoppiato nel giugno del 1991 che, visto a posteriori, appare paradigmatico. In pochi mesi si sarebbe esteso alla Bosnia-Erzegovina, con l’assedio di Sarajevo, città simbolo del pluralismo nazionale, culturale e religioso, in una guerra destinata a durare fino al novembre del 1995, nel quale emersero tratti e dinamiche che poi avremmo ritrovato altrove in altre guerre nel corso del tempo.
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L’emergere dell’ideologia etno-nazionalista, motore e istigatrice dei conflitti, strumento di rilegittimazione di una classe di potere
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L’impotenza politica della diplomazia internazionale e delle Nazioni Unite, una frattura esiziale nella loro credibilità dalla quale non si sono mai più riprese (Ucraina e Gaza docet)
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I media come protagonisti attivi del conflitto, dove la propaganda e la disinformazione sistematica degli organi di informazione nazionali, furono centrali nella costruzione del “nemico” e nell’alimentare l’odio etnico.
La genesi della violenza
Per comprendere Srebrenica, quel grumo di violenza parossistica, feroce, occorrerebbe forse anche una chiave più profonda dell’analisi socio-politica: interrogarsi sulla genesi e la natura della violenza agita su quelle persone e comunità. La crisi e la fragilità del modello di integrazione nazionale carismatico promosso da Tito, alla sua morte portò le repubbliche a retrocedere in maniera regressiva in un’identità etnica: la propria piccola patria, una religione, un capo e il proprio popolo prima degli altri. Miti pseudo-storici di rifondazione, rievocazione di presunte umiliazioni subite. E quando, per affermare la propria, si nega all’altro il diritto alla storia, alla libertà, la violenza diventa ineluttabile.
Imparammo che quando una comunità muore, quando si rompono i suoi legami sociali, la rottura rischia sempre di estendersi ai rapporti individuali, intra-soggettivi, retrocedendo a meccanismi di identificazione primaria, a logiche identitarie regressive. Il vicino, il compagno di scuola, l’amico, possono diventare così progressivamente, l’altro”, l’estraneo” e infine, semplicemente, il “nemico” da uccidere.
In tutto ciò ebbe probabilmente un suo peso anche lo svuotamento di significanza di valori civili condivisi, come l’antifascismo, trasformato da decenni in retorica e ideologia ufficiale di regime, così che quando un nazionalismo aggressivo riemerse, con le sue parole d’odio, di violenza, di rivendicazioni territoriali, non vi era più un vissuto coerente e condiviso con cui confrontarlo e anticorpi sufficienti in grado di riconoscerlo e contrastarlo.
Come nei racconti di Elie Wiesel, il male era riapparso ma nessuno se ne era accorto.
Dopo Dayton: ricostruzione e frustrazione
Dopo la pace di Dayton, nei lunghi anni della ricostruzione, la giustizia internazionale — con i processi all’Aja — arrivò tardi, piena di lacune. Lasciando la sensazione di un risarcimento morale e di giustizia incompiuto. La riconciliazione richiede tempo, spazi, strumenti. Se non la si sostiene politicamente e non si ricreano le precondizioni economiche, sociali, adeguate, il dialogo e il superamento dei traumi di una società lacerata al suo interno, resta confinata a esperienze isolate e testimoniali. Un aiuto avrebbe potuto arrivare dal processo di integrazione europea. Ma per la Bosnia, come per Serbia e Kosovo, il continuo rinvio dei tempi, ha alimentato frustrazioni e risentimenti. Anche se ciò non ha impedito a Bruxelles, nel frattempo, di delegare a quei paesi il ruolo di guardiani dei flussi migratori sulla rotta balcanica.
Ne sono derivati, da un lato, un’emigrazione in cerca di lavoro e di una vita migliore nelle città d’Europa, dall’altro, per chi è rimasto, narrazioni ipernazionaliste, sentimenti di compensazione regressiva consolatoria, forieri del possibile riaprirsi di nuovi conflitti. In troppi luoghi dei Balcani — Srebrenica compresa — le ferite restano sotto pelle, un trauma non elaborato, ecco perché sostenerne la società civile è oggi più che mai centrale, non mancano esempi luminosi, forti e giovani.
E le rivolte studentesche e di cittadini da mesi in corso in Serbia, sono dimostrazione che è in campo una generazione in rivolta contro un potere che si alimenta dei fantasmi, degli scheletri e delle parole d’ordine del passato, spesso sostenuto dall’esterno ad oriente.
Non sono più tornato nel cortile di quella scuola, ma la sua immagine é incancellabile, come pure quella di tanti volti e figure incontrate in questi anni, nei campi dei rifugiati e altrove. Chissà dove sono? come é stata la loro vita?
In un paese che vive ancora tante fatiche , è cresciuta ed è diventata adulta una generazione che la guerra non l’ha conosciuta e guarda avanti.
E’ a loro che bisogna pensare , ricordando quello che è stato, ma offrendo una prospettiva e un futuro , senza che il morto afferri il vivo, senza che, come l’Angelo dipinto da Paul Klee, lo sguardo sia rivolto solo al cumulo delle macerie della storia.
Mi domando se quanto successo possa avere una spiegazione esaustiva, se sarà mai possibile darsi fino in fondo una risposta. Non possiamo rimanere paralizzati nella difficoltà di darsi quelle risposte che forse non arriveranno mai
Generazioni si susseguono le une alle altre eppure , ttttttt guardando attorno a noi, il tempo di guerre totali che stiamo attraversando sembra dirci che l’ uomo non ha imparato nulla dalla sua storia tragica ,
Forse per questo, il modo migliore per onorare le vittime di ieri e di oggi sarebbe quello di assumersi la responsabilità e il dovere , come comunità politica nazionale e internazionale, di creare meccanismi e strumenti preventivi che sappiano almeno proteggere tutelare le comunità e i popoli da future aggressioni e crisi interne laceranti che sempre , soprattutto nelle fasi di crisi potrebbero ripresentarsi , in un contesto dove il ritorno della guerra come normale strumento per la soluzione dei conflitti e le nuove forme di autoritarismo , alimentate dall’era digitale, potrebbe segnare un inedito nuovo rapporto tra masse e potere.
Una sfida e un destino che riguarda tutti noi , perché, dopo Srebrenica, dopo quell’ estate, nessun ha più’ potuto ritenersi assolto ed escluso e nessun luogo del mondo è rimasto lontano.
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