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La scuola non è fatta di muri
“Io pur ti vidi coll’invitta mano,
che parte i regni, E a Vienna intimò pace,
meco divider con attento guardo
il curvo giro del fedel compasso”
I muri sono divisori: ci proteggono dalle intemperie, dal caldo sole estivo. Ci proteggono non solo dalle temperature esterne, ma da sguardi degli intrusi.
Le mura raccontano la storia di una città, le dominazioni subite, le stratificazioni narrano ere e passati che si sono succeduti, sovrapposti, giustapposti. Talvolta gli edifici storici hanno cercato, laddove possibile, di mantenere un impianto più o meno vicino a quello originale, altre volte non sopravvive niente di quanto esisteva in origine; guerre, incendi, hanno distrutto per sempre un passato che fu. Le cinta murarie sono servite a difendere le città da attacchi di nemici, insieme a torrioni, fossati, ponti levatoi hanno costituito la difesa più naturale.
Spesso le mura di una città, non solo quelle antiche, ma anche quelle moderne sono come pagine di libri, descrivono la città. Ci rendiamo conto se viviamo in una zona chic o in periferia e se si tratta di una periferia degradata dal tipo di mura che si possono osservare. Solitamente nei centri, le mura sono più curate, le opere di restauro sono realizzate con una maggior frequenza, in periferia, solitamente, la popolazione ha un reddito più basso e la priorità non è certo l’opera di rifacimento di murature.
Ma tanti muri hanno anche abbracciato le proteste che scaldano gli animi delle periferie e gli street artist si cimentano in opere di restauro a buon mercato dove il disagio sociale trova la sua voce.
Utilizzato in termini scolastici, la parola muro è una parola perentoriamente negativa. Un muro è colui che entra in classe chiuso nel suo mondo, non comunica, non ha rapporto con i professori, forse con qualche amico. Un muro è una monade leibniziana, un mondo chiuso in sé, uno che non ascolta perché è certo che il suo punto di vista è quello giusto, che ragionare non serve, è solo una perdita di tempo, uno convinto che gli altri sono solo un fastidio al proprio modo di interpretare e condurre la vita. L’altro non è contemplato in quanto non riconosciuto come portatore di un modo di pensare diverso, di un mondo altrettanto ricco che aggiunge a conoscenze e esperienze personali. L’altro è una minaccia, uno da escludere, da guardare con sospetto, da tenere a bada. Un muro fa differenza tra il sé e l’altro. L’altro deforma, contamina, svilisce, sminuisce.
Una scuola è un luogo di partecipazione, un luogo a cui era deputato ai tempi dei romani il foro. Quando in passato l’insegnante voleva escludere un ragazzo indisciplinato dall’attività didattica che si stava svolgendo in classe, lo poneva con la faccia al muro. Il muro era il divisorio tra alunni capaci e incapaci, in grado di seguire la lezione e chi non lo era, tra chi partecipava volentieri alla lezione e chi, invece, si dimostrava negligente.
Se oggi questa metodica appare non solo superabile ma anche tanto vecchia e inefficace da essere risibile, è perché si è capito che nessuno è un muro. Che non tutti siamo ben predisposti verso la scuola per motivi diversi, l’idea più diffusa verso chi mostra ostilità è che la scuola gli sta sottraendo tempo: tempo per dormire la mattina, quello di stare dinanzi ad un videogioco, tempo per chattare con i compagni o con l’amore, tempo per andarsene liberamente a zonzo in una bella giornata di sole. A scuola sta sprecando tempo, il tempo della propria vita, quello che nessuno gli restituirà più. Inoltre la scuola è un lavoro. E come disconoscere questa realtà così evidente visto la mole di tempo e sacrificio impiegato, per quale motivo deve essere un lavoro non retribuito? Chi ha un atteggiamento ostile verso la scuola ragiona in questi termini, senza parlare poi dei casi più gravi. Quelli che provengono da ambienti disagiati e per i quali il tempo scolastico è un tempo sottratto ad un lavoro remunerato.
Inoltre, oggi il mondo veicola messaggi che contrastano quello dato dalla scuola. Se da un lato questa è investita sempre più dalla politica di compiti gravosi di formazione, dall’altro, si mina, neppure subdolamente, il messaggio che vuole l’istituzione scolastica in primo piano quale realtà che più di ogni altra mira all’educazione e alla formazione degli alunni. La prima cosa che mi viene in mente è il ruolo che oggi hanno gli influencer e l’uso di tik tok. Oggi un ragazzo bravo che ha talento nello scriversi una sceneggiatura e ha doti di attore è considerato più di un insegnante. I giovani parlano ai giovani, usano lo stesso linguaggio, condividono le stesse problematiche, sono spesso ironici nel prendere in giro il mondo adulto. Ovviamente nell’occhio del mirino c’è la scuola e i professori. Alcuni di questi ragazzi, particolarmente dotati, lavorano per delle agenzie o per giornali quali Fanpage, guadagnano sia in popolarità, diventando i nuovi idoli e modelli da seguire, sia in termini economici.
Se dovessi indossare i panni della mia età, me ne uscirei con la solita espressione: gioventù bruciata, non sanno cosa significa guadagnarsi il pane, ragazzi viziati che non hanno stimoli. Ripeterei, insomma, uno di quei refrain che ogni generazione ha dovuto ascoltare da quella precedente.
Indosso i panni della mia età, ma con la fortuna di avere difronte il mio osservatorio quotidiano: i ragazzi.
Quando mai in epoche precedenti a questa si è mai visto che qualcosa bollata come una stupidaggine, moda passeggera delle giovane generazioni fosse adottata dal mondo adulto? Dopo essere sbarcati sui principali social, oggi i politici sono sbarcati anche su Tik Tok. Per quale motivo? Convincere? Avvicinarsi al mondo giovanile raggiungendo un’utenza che diversamente non avrebbero coinvolto?
Non si può negare che Tik Tok sia nato come territorio dei giovani che con quel mezzo hanno cercato un luogo di evasione, un luogo dove potersi intrattenere, prendere in giro, un luogo in cui ci si potesse esprimere con leggerezza. Anche questo luogo è stato colonizzato dagli adulti, ma la cosa più grave e che non si sta parlando di adulti qualsiasi, ma di persone, i politici, i cui discorsi un tempo riguardavano problemi da affrontare, piani per governare, idee e programmi di partito. Si può condensare questo nello spazio a disposizione di un tik tok? Domanda ovviamente retorica. È vero che la politica deve abbandonare il politichese ed esprimersi in una lingua comprensibile al cittadino medio, ma ridurlo a concentrato di idee equivale a proporre uno spot. La politica si è venduta, ha acquistato uno spazio commerciale in cui, abbandonando le lungaggini delle tribune politiche, si fa pubblicità. Tutto diventa vendibile, tutto acquistabile, questo è il messaggio che passa. E allora Berlusconi che, esaurito persino l’effetto della pillola blu, non può più proporsi al giovane mondo femminile, fa televendite sulle pensioni. E appare più credibile.
Ritorniamo al muro, il muro di gomma verso cui ogni oggetto lanciato torna dietro. Fuori di metafora, come si può sperare che alcuni ragazzi, quelli per cui nulla cambia perché partono da ambienti culturalmente svantaggiati, e che vivono in un Paese in cui i più meritevoli sono sempre gli altri, i figli dei professionisti che frequentano scuole in cui incontreranno figli d altri professionisti, e i cui padri invoglieranno a coltivare amicizie che possono ritornare utili, dicevo, come si può sperare che questi ragazzi continuino a vedere nella scuola quel luogo che ancora offre un ventaglio di opportunità formativa in grado di renderli competitivi almeno quanto i loro coetanei più fortunati?
I ragazzi, forse, continueranno a credere nella scuola se l’atteggiamento della scuola non sarà quello di demonizzare fenomeni legati ai mutevoli costumi sociali, ma sarà in grado di analizzarli, mostrando le falle di un sistema che consentirà ai soliti noti, quelli la cui ricchezza è rappresentata dalle proprie famiglie, di proseguire un cammino su cui si punta alla qualità professionale, mentre ai figli di nessuno di sognare in grande accontentandosi della metà, perché la loro meta è deterministicamente prescritta nel destino di appartenere ad un ceto medio basso. È essenziale, allora, l’opera di quelle strane figure antropomorfe degli insegnanti, preti laici, che si impegnano ogni giorno per dimostrare che l’equazione appartenenza al ceto sociale uguale a riuscita nella vita, non è sempre direttamente proporzionale e che se sei uno che nella vita hai investito più in attività redditizie, perché il soldo facile lo consentiva, che su se stesso, resterai un ignorante.
È essenziale che quei dinosauri dei professori insegnino che l’abito non fa sempre il monaco, che il nostro abito è il modo in cui ci esprimiamo, la considerazione di cui godiamo, il rispetto che noi stessi, prima ancora degli altri, abbiamo per la nostra persona. Essenziale è credere che può avere sogni più robusti anche chi non ha avuto mai troppi soldi in tasca e le cose se le deve guadagnare. Il mezzo più democratico per ottenere ciò è armarsi di buona volontà e considerare lo studio l’unico rimedio per azzerare marcatori sociali.
Ogni era con le sue lotte è pervenuta a conquiste sociali che pochi anni prima neppure era immaginabile sperare, ciò che sta succedendo in Iran ci insegna che una voce anche se è stata spezzata, repressa, ammutolita, non smette di avere un’eco, un seguito, tante giovani, sono pronte ad affrontare torture e sfidare anche la morte dei loro aguzzini pur di non fermare la battaglia che Masha Amini ha innescato. Non l’ha innescata per un vezzo, un capello scomposto non l’avrebbe resa meno bella, l’ha innescata perché l’oscurantismo non è più ammissibile in un’epoca in cui in Italia Samantha Cristoforetti è la prima donna a guidare una missione nello spazio. A scuola si parla di fermenti, di libertà, di parità. Non si insegna alle donne ad affinare le armi di seduzione per puntare ad un buon partito, si insegna che sono terminati i tempi in cui una donna poteva sentirsi realizzata se sposava un uomo benestante. Che sono terminati i tempi in cui i matrimoni di convenienza saldavano alleanze politiche e servivano a rafforzare potentati. E anche quelli in cui il matrimonio riparatore serviva a non diffondere lo scandalo creato da una condotta deviante ed aberrante.
Un percorso di crescita prevede la lenta e graduale consapevolezza dell’importanza del proprio corpo che non è oggetto di gossip, di scambio, non è merce soprattutto quando è bersaglio di sensualità esplicita e torbida che evoca “i ragazzi di vita” delle opere di Caravaggio.
In foto:
Battistiello Caracciolo
Amorino dormiente, 1622
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