Un modello impopolare di banca: che motivo c’è di difenderlo?

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22 Gennaio 2015

Nel modello di banca cooperativa “pura”, i soci depositanti accettano di prestare denaro ad altri soci imprenditori, che li impiegano per loro conto. Se il denaro viene prestato con un interesse, i profitti relativi restano a disposizione della cooperativa (proprietà indivisa); altrimenti,  la cooperativa si limita a coprire i costi. Naturalmente, i soci depositanti non sono in grado, collettivamente, di individuare a priori i soci meritevoli di credito dai cattivi pagatori: quindi sono esposti al rischio di default dei debitori.  Come in qualsiasi banca: con la differenza, però, che la natura mutualistica della banca cooperativa non consente di rifiutare il credito al socio che lo richiede (se non in particolari condizioni) e, soprattutto, che i soci concorrono nella stessa misura (voto capitario) alla nomina del consiglio di amministrazione, cioè degli esperti che dovrebbero tutelare i soci depositanti dal rischio di default degli altri, allocando correttamente il credito. Il risultato è intrinsecamente inefficiente (a differenza di quel che accade nelle assicurazioni mutualistiche) ed il correttivo possibile è la limitazione dimensionale ed operativa della banca cooperativa: al momento della nomina degli organi di direzione, i soci devono “conoscersi” personalmente tra loro (devono cioè vivere ed operare su un territorio ristretto) e la banca deve prestare esclusivamente ai soci, a breve o brevissimo termine. Su tutto il sistema, domina la clausola di gradimento: la possibilità, cioè, della cooperativa di rifiutare l’associazione a persona ritenuta non “degna”.

Fin qui la teoria. La realtà italiana è molto peggiore.  Storicamente, le banche popolari e le casse rurali ed artigiane (poi banche di credito cooperativo), hanno corrisposto abbastanza al modello, applicando i correttivi sopra indicati. Le banche popolari del Nord sono nate per iniziativa di imprenditori piccoli e medi legati al territorio, così come del mondo dell’associazionismo soprattutto cattolico: ma gli impieghi si sono indirizzati in prevalenza sul finanziamento del capitale circolante delle imprese socie, all’interno del territorio di riferimento. I guai sono cominciati con la crescita dei depositi connessa alla crescita della ricchezza disponibile nei territori e, successivamente, con la despecializzazione del sistema bancario sancita dal Testo Unico del ’93 (tra l’altro, incidentalmente, ci si dimentica spesso che gli investimenti in capitale fisico delle PMI e delle aziende agricole in Italia erano finanziati con leggi dello Stato e assistiti da garanzie pubbliche: da venti anni non è più cosi).

Le banche popolari diciamo più “dinamiche” sono diventate banche come le altre, dal punto di vista dei rischi, ma con una governance del tutto inadeguata. Il voto capitario ha consentito ai consigli di amministrazione di auto-perpetuarsi, in assenza di qualsiasi controllo dell’azionista-socio; le liste per il rinnovo dei consigli si formano per effetto di accordi opachi tra gruppi organizzati (di grandi clienti, di dipendenti-soci, di associazioni esterne alla banca, addirittura di famiglie) attorno alla capacità di aggregazione del consenso assembleare: chi ha mai assistito all’assemblea di una grande popolare (anche senza richiamare alla memoria il sabba sindacale della Bpm) sa che l’esperienza più simile è quella dei congressi dei partiti di massa della prima repubblica, con i capi corrente  che girano in platea a suggerire i nomi da “cancellare” o da “inserire” in lista parzialmente bloccate.

La quotazione delle azioni prive, di fatto, del diritto di voto, ha introdotto un ulteriore elemento di distorsione, perché ha consentito ai gruppi di autocontrollo delle varie banche di manipolare il prezzo delle azioni, prevalentemente possedute da propri clienti. E, a proposito di speculatori londinesi, potrei raccontare molte vicende di fondi anglosassoni che hanno fatto soldi con le azioni delle popolari italiane quotate, pur sapendo benissimo del limite legale al possesso azionario e alla raccolta di deleghe in assemblea: bastava avvicinare i vertici delle banche, al riparo da qualsiasi conseguenza.

Si dirà che questi sono i difetti tipici di qualsiasi public company. Ma, di nuovo, il voto capitario non consente per sé la presenza di azionisti “attivi”, interessati ad una gestione efficiente della banca ed in grado, se necessario, di cambiarne i vertici.  Come per tutto il sistema bancario italiano, la situazione è precipitata con la crisi e con il mutato atteggiamento delle autorità di vigilanza, orientato al dogma del capitale. Le grandi popolari hanno dovuto mettere le mani nelle tasche dei propri clienti più fedeli, eseguendo aumenti di capitale per centinaia di miliardi e collocando nei portafogli dei clienti strumenti obbligazionari “convertendi”, al limite delle norme che tutelano, in teoria, il risparmio non professionale. In alcuni casi, i collocamenti interni alla rete degli sportelli sono stati favoriti dalla concessione di credito ai sottoscrittori. E tutto per coprire perdite sugli impieghi, spesso rivolti a grandi imprese e comunque fuori dei territori di origine, ormai lontani feticci da richiamare in qualche iniziativa autocommemorativa. Ai clienti delle popolari non quotate è andata anche peggio, perché il mercato interno delle azioni e obbligazioni non riflette in alcun modo il loro valore intrinseco.

Quindi, mi chiedo: che motivo c’è di difendere, per di più con argomenti ideologici, un sistema del genere? Molti professionisti, anche di spessore, prestano la loro voce a difesa del “mondo cooperativo” perché hanno ricevuto e ricevono incarichi nei consigli. È umano. Ma gli altri? In ogni caso, un problema dimensionale esiste. E quindi un intervento “dirigistico” era opportuno, sebbene si possano nutrire dubbi sulla decretazione d’urgenza. Sarebbe stato certamente meglio studiare e approvare una riforma organica del Testo unico bancario, che, ad esempio, consentisse di mettere  mano con strumenti di mercato al problema della sottocapitalizzazione delle Bcc. Ma un conto è dire che l’intervento del Governo è, semmai, troppo timido e un conto è gridare alla profanazione di templi già in rovina.

E infine, a proposito di profanazione: Renzi è un vero “imprenditore” moderno della politica, cerca di creare per sé nuove rendite di posizione attaccando quelle godute dai suoi avversari. Ma se i “corpi intermedi” (sindacati, consigli regionali, consigli di banche popolari, alti burocrati, perfino magistrati etc.) non sanno rispondere agli attacchi, la colpa è soltanto loro.

 

 

TAG: banche, Matteo Renzi, riforma popolari, voto capitario
CAT: Banche e Assicurazioni

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