Cari banchieri andatevi rileggere la storia. Imparerete che voi esistete solo perché sussiste la fiducia. È la stessa parola «credito» a testimoniarlo: si tratta del participio passato del verbo latino «credere», verbo che non vuol dire solo «ritenere» o «avere la persuasione che una cosa sia tale quale appare in sé stessa o quale ci è detta da altri», come recita il vocabolario Treccani.
In latino nella forma intransitiva che regge il dativo, credere significa «dare credito a, aver fiducia in, fidarsi di». Capito? Credito vuol dire «fidarsi di» (è la stessa radice della parola credenza, in questo caso però significava che bisognava aver fiducia che i cibi in essa conservati non fossero stati nel frattempo avvelenati). Istituto di credito letteralmente vorrebbe dire istituto del quale fidarsi, al quale accordare la propria. Una parolina, fiducia, che rincorre piuttosto spesso in questi giorni calamitosi per le banche italiane.
Cari banchieri, fareste bene a ricordare le vostre radici. La finanza moderna è nata proprio qui, in Italia, negli stessi luoghi dove opera l’Etruria, una delle banche che avete mandato a rotoli. Hanno cominciato i genovesi, ma poi sono stati i toscani a inventarsi la banca come la conosciamo oggi: i Ricciardi a Lucca nel 1100, i Bonsignori a Siena nel 1200, i Bardi e i Peruzzi prima e i Medici poi a Firenze tra 1300 e 1400. Piemontesi ed emiliani andavano in giro per tutta Europa a esercitare il prestito su pegno. Li chiamavano «lombardi» perché tutti gli italiani erano identificati con i lombardi, pure se non lo erano e arrivavano da altri posti. Tutti si fidavano di loro, anche se li disprezzavano (tra XV e XVI secolo gli ebrei avrebbero via via sostituito i lombardi, sia nella funzione di prestatori, sia nell’esecrazione generale).
Tutto il ramificatissimo sistema finanziario messo in piedi dagli italiani tra medioevo e prima età moderna si basava solo ed esclusivamente sul concetto di fiducia. Si davano i propri soldi al banchiere perché ci si fidava di lui, il banchiere prestava soldi al cliente perché era ragionevolmente certo che gli sarebbero stati restituiti (li prestava facendo finta di cambiare, per aggirare i divieti ecclesiastici sull’usura, da ciò cambiale).
Il banchiere è onesto per definizione e le sue scritture fanno testo in tribunale: su questa base le transazioni avvengono a voce – la «ditta di banco», da cui ditta – l’unica registrazione scritta è quella effettuata dal banchiere e in caso di contestazioni legali assume valore di prova. Il sistema regge per qualche centinaio d’anni e la parola dei mercanti e dei banchieri italiani diventa addirittura sinonimo di affidabilità e onestà.
Ma non è solo il sistema finanziario a basarsi sulla fiducia, bensì anche quello monetario. L’Italia è la prima a tornare al bimetallismo oro/argento. Genova conia la prima moneta d’oro, il genovino, nel 1252, nel medesimo anno, pochi mesi dopo, segue Firenze con il fiorino. Nel 1284 arriva Venezia con il ducato. Fiorino e ducato diventeranno gli strumenti del commercio internazionale, il primo nell’Europa centro-settentrionale, il secondo nel bacino del Mediterraneo. Il ducato rimarrà inalterato, 3,5 grammi di oro fino, per oltre mezzo millennio, fino alla caduta della repubblica, nel 1797. Dal Cinquecento prenderà il nome di zecchino e il suo titolo era così sicuro che ancor oggi diciamo «oro zecchino» per indicare l’oro puro.
Ora, perché si preferiva un dischetto di oro con impressi il giglio di Firenze o il doge di Venezia anziché un pezzo d’oro del medesimo peso? Perché si aveva fiducia nell’autorità che quelle monete coniavano, ovvero il granducato di Toscana e la repubblica di Venezia. I ducati veneziani circolavano addirittura in sacchetti chiusi, sigillati col marchio della zecca di San Marco, non se ne vedeva l’interno, ma si era certi che all’interno di fossero zecchini sonanti. Ancora una volta fiducia. E che gli italiani fossero sinonimo di affidabilità è un concetto piuttosto estraneo alla percezione dei nostri giorni, come pure che le scritture contabili avessero valore di prova in tribunale. Oggi i banchieri italiani se finiscono in tribunale si trovano più spesso sul banco degli imputati, anziché nel ruolo di coloro la cui parola è definitiva.
Al tempo non c’erano strumenti di protezione dai fallimenti e quando saltava un banco chi ci aveva depositato i propri denari perdeva tutto. I Peruzzi falliscono nel 1343 per la somma colossale di 600 mila fiorini, i Bardi li seguono nel 1346 con un botto ancora più clamoroso: 900 mila fiorini; in tutto un milione e mezzo di fiorini, pari all’un per cento dell’intera massa monetaria circolante nell’Europa di allora. Crollano «le colonne della cristianità», come scrive il cronista fiorentino Giovanni Villani. In un elenco di 350 fiorentini falliti giunto fino ai nostri giorni (ma è probabile che fossero molti di più quelli finiti a gambe all’aria) si ritrovano centinaia di nomi oscuri: piccole vittime di un grande disastro. Neanche una sconfitta militare ha mai avuto conseguenze tanto drammatiche. Scrive ancora Villani: «Fu alla città di Firenze maggior ruina e sconfitta che nulla mai avesse il nostro comune.»
I fallimenti veneziani sono meno clamorosi per entità, ma provocano una corsa al prelievo del tutto simile a quelle che vediamo ai nostri giorni. Quelli sono gli anni in cui la grande finanza sta uscendo dall’Italia: il banco Medici chiude nel 1494 e la famiglia fiorentina sarà sostituita nel primato dai tedeschi Fugger. A Venezia, banco Garzoni, nel gennaio 1499, deve contrastare un’autentica corsa al prelievo: i risparmiatori atterriti si riprendono 130 mila ducati, i soli fiorentini ne ritirano 40 mila in una settimana. È un vero e proprio panico di massa che si impadronisce dei risparmiatori veneziani, con corse al ritiro dei depositi. «Questa matina el bancho di Garzoni, quasi primo bancho di questa terra, è fallito,» scrive praticamente in tempo reale il 1° febbraio 1499 l’ambasciatore di Milano a Venezia, Cristoforo Lattuada. Il rappresentante diplomatico di Ludovico il Moro spiega che si tratta della banca più importante della città, che tutti sono rimasti molto attoniti e sorpresi di fronte alla sua chiusura, che non c’è mercante esente da perdite poiché tre quarti delle transazioni effettuate a Rialto erano segnate nei registri dei Garzoni. Non gli è quindi difficile azzardare: «Siché se dubita che per causa di questa rottura non ne habiano fallire multi altri» e infatti qualche mese dopo salta il banco dei Lippomano. Per tentare di sventare quest’ultimo fallimento viene messa in atto una manovra sporca, che pure questa ricorda da vicino tante losche attività dei nostri giorni. Racconta il cronista Domenico Malipiero che la Serenissima Signoria decide di sostenere il banco approvando uno stanziamento di dieci mila ducati, utilizzando fondi che lo stato ha ricevuto in prestito da privati. Ma chi si precipita a ritirare i depositi non appena quel denaro si rende disponibile? Proprio i membri del governo che avevano poco prima votato il provvedimento.
Il panico provocato da quei fallimenti si rinnoverà un’ottantina d’anni più tardi, nel 1584, quando salta la banca Pisani-Tiepolo l’ultimo istituto di credito privato. La voce popolare vuole che il fallimento sia causato dal naufragio della nave Nana (ovvero della famiglia Nani: era uso battezzare le navi venete col cognome femminilizzato del comandante o dell’armatore) che trasporta merci per la fantasmagorica cifra di 400 mila ducati. Il naufragio non si è mai verificato, ma la voce messa in giro ad arte è sufficiente a far fallire la banca. Da quel momento a Venezia ci sarà solo una banca pubblica, il Banco Giro. Genova ci era arrivata ben prima, nel 1407, quando per salvare le finanze dei propri cittadini fonda la Casa di San Giorgio coi i suoi relativi banchi che saranno chiusi da Napoleone nel 1805, a due anni dal quattrocentesimo compleanno. Le finanze del regno d’Italia saranno trasferite a Milano nel Monte Napoleone.
* autore di “L’invenzione dei soldi. Quando la finanza parlava italiano” (Garzanti).
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