The wall must go on: deturpare la nazione per il bene della nazione

19 Febbraio 2020

The wall must go on. Il diktat di Trump è chiaro. La sicurezza nazionale richiede sacrifici. E se costruisci la tua elezione sull’immigrato clandestino da fermare, non puoi tirarti indietro sul più bello. Ci vuole coerenza. Importa poco che l’edificazione della grande muraglia (oltre 100 km per più di un miliardo di dollari di spesa) a confine con il Messico implichi la detonazione di cimiteri indiani e il deturpamento di aree tutelate dall’Unesco, come avvenuto per la riserva naturale del Pipe Cactus National Monument in Arizona.

Un intero ecosistema, praticamente integro, diventa sacrificabile per il bene superiore: con falde acquifere compromesse, danni alla fauna locale e antichi cactus spazzati via. Antichi cactus, peraltro, considerati dai nativi come la reincarnazione dei propri antenati. Ma si sa, i morti e le credenze religiose hanno valore solo se attengono al mainstream e nel compiere una valutazione politica bisogna tener conto del rapporto costi-benefici. Le tracce storico-paesaggistiche difficilmente fatturabili, in tal senso, possono scomparire senza troppi rimpianti: fermare i visitatori indesiderati d’oltreconfine rende di più dell’incentivare i visitatori desiderati.

E rende di più perché il mercato elettorale, come ogni mercato, lo fa la domanda e quando il potere d’acquisto è irrisorio bisogna offrire merci che comportino costi contenuti, di largo accesso. L’investimento deve essere strategico. E se il sentiment diffuso è la paura, che non è mai generica, l’offerta deve sapere come intercettarlo, gettando uno sguardo ai possibili ricavi e alle tempistiche di incasso.

Pensare a modelli di sviluppo sostenibili che comprendano la creazione di posti di lavoro stabili – in grado di ridare progettualità esistenziale alla stragrande maggioranza dei neolavoratori – o la riduzione drastica delle disuguaglianze socio-economiche richiede sforzi enormi, richiede una capacità di visione, richiede programmazione. Fattori difficilmente spendibili in pieno corso populista degli eventi. Il darwinismo politico ne sancisce l’incapacità adattativa.

Viceversa, lo spauracchio dell’immigrato si rivela incredibilmente prestazionale, così come il negazionismo climatico. D’altronde, laddove le molecole della storia e della cultura non informano la precomprensione del mondo, l’onestà intellettuale è un ingrediente superfluo e la complessità viene percepita come mistificazione, il terreno è spianato per le risposte facili, soprattutto se intestinali.

Risposte che funzionano perché danno copertura elettorale a quella paura di cui sopra. Leggibile, perlopiù, come disagio sociale deprivato di un orizzonte di riscatto, e, purtroppo, facilmente canalizzabile nella comfort zone del capitalismo selvaggio, ossia, la guerra dei pezzenti.

I ceti medi impoveriti e i ceti medi mancati rappresentano il target perfetto per i populisti di tutto il mondo, ne magnificano il destino. Trump, capostipite della schiera, lo sa bene. Da magnate dell’immobile dal patrimonio ancora da definire e celebre, grazie ad alcune preziose inchieste giornalistiche, per le sue assunzioni di manodopera a basso costo, è riuscito persino a proporsi, indisturbato, come difensore della classe operaia. Con i giganti del chiacchiericcio pronti a stabilirne la sconfitta prima e la fine imminente poi, ritenendolo un congegno che si sarebbe spento da sé. Come se le leggi fondamentali degli umori politici obbedissero alla logica o al senso di responsabilità. Invece, guarda caso, niente da fare.

La paura, che, ripetiamo, non è mai generica, è tanta, ed è sottostimata, di fatto, ben si coniuga col pelo sullo stomaco di chi vuole guidare un grande paese come gli Stati Uniti. E se è vero che la percezione dell’insicurezza è essa stessa l’insicurezza, probabilmente, anche la percezione della sicurezza è essa stessa la sicurezza.

Ebbene, al momento, con la crisi dell’export (la lotta agli stati canaglia e l’esportazione della democrazia sono in flessione), il pezzente rubalavoro d’oltreconfine costituisce senza dubbio il portatore di insicurezza per antonomasia, l’insicurezzifero. E come lo fermi l’insicurezzifero ripristinando la percezione della sicurezza che è essa stessa la sicurezza? Semplice, con un tangibilissimo, costosissimo e mastodontico muro.

Il portatore di insicurezza verrà tenuto fuori, per tenerlo fuori saranno distrutti manufatti di 10.000 anni fa e il paesaggio sarà irrimediabilmente deturpato. Peccato, piccolissimo dettaglio, che il disoccupato americano rimarrà disoccupato e il precario rimarrà precario.

Tuttavia, una volta consapevole di ciò, l’insicuro, non più così convinto dei vantaggi arrecatigli dalla grande muraglia trumpiana, sarà distratto con qualcos’altro. Magari si ricorrerà all’esobiologia, che avrà già individuato forme di vita intelligenti in arrivo dallo spazio pronte a fregargli il lavoro.

Di conseguenza, sarà edificato un megascudo spaziale, il pianeta rinuncerà alla sua atmosfera per ottenere un po’ di sicurezza, l’aria diverrà irrespirabile, ma, udite udite, il capitalismo sarà ancora salvo, così come le disuguaglianze. E, ironia della sorte, l’insicuro rimarrà insicuro.

TAG: Arizona, muro, sicurezza, The wall must go on, Trump
CAT: Beni culturali, Paesaggio

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