Umanizzare la tecnologia, stimolare le aziende: due mission dei nuovi designer

25 Novembre 2017

“Lo scopo principale [del design] è di non complicare ulteriormente la vita già difficile del consumatore” diceva il grande designer industriale franco-statunitense Raymond Loewy. In effetti basta sostituire la parola “persona” alla parola “consumatore” per intuire la portata, e la straordinaria attualità, del pensiero di Loewy.

Del tema Gli Stati Generali se ne sono occupati varie volte nell’ultimo periodo. Rimettere al centro l’essere umano, questa è la priorità di molti designer contemporanei. Oggi più che mai, in un’era che sembra annunciare il trionfo dell’algorithm economy. Specie in un paese come l’Italia, la terra del Rinascimento, dei sogni vitruviani, della bellezza che (ancora) ci circonda.

D’altra parte la lezione antropocentrica (ma di un antropocentrismo illuminato, non-specista e rispettoso della biosfera – antitetico rispetto al boom dell’antropocene), la ritroviamo in titani come Dieter Rams, l’uomo del “less, but better”, del design onesto, profondo, utile, che dura e rispetta l’ambiente. O l’architetto Renzo Piano, che continua a ricordarci la “fragilità della terra”, impegnato nella battaglia per recuperare le periferie.

E la prima cosa da umanizzare sono le tecnologie, sempre più pervasive e potenti. «Il designer deve umanizzare le tecnologie, ma per farlo deve conoscerle. Deve, cioè, essere informato – dice Venanzio Arquilla, docente della Scuola di design del Politecnico di Milano e professore associato presso il dipartimento di design dello stesso –. E grazie alla conoscenza, deve saper mediare, costruendo scenari aderenti ai bisogni degli utenti. La dimensione, dunque, è quella di capire cosa serve alle persone, e fare in modo che la tecnologia risolva questi bisogni positivamente».

Perché non sempre ciò che è tecnologicamente interessante e fattibile è pure utile alle persone, ricorda Arquilla. La strada dell’innovazione, vien da dire, è lastricata di device che nessuno ha acquistato. Al contrario, la vera innovazione, anche tecnologica, ha sempre una dimensione antropologica e sociale. Lo sanno bene i tecnodesigner, gli artigiani digitali, gli startupper di ogni tipo che costellano l’Italia da nord a sud. Pensiamo solo al caso di Pecore Attive, del creativo imprenditore Filippo Clemente, di Altamura, che trasforma il vello delle pecore locali in accessori di pregio.

O ai lavori di Massimo Marcelli, designer torinese e marchigiano di adozione. Per creare lui ama guardarsi attorno, cercando di individuare le esigenze delle persone, i loro problemi. «Ad esempio Spoon, il mio cucchiaio che rileva i pesticidi, mi è stato ispirato dalla visione di una trasmissione di Report sulle sofisticazioni alimentari. Certo, ho dovuto cercare una tecnologia in grado di rilevare i pesticidi, e quindi mi sono dovuto rivolgere a un laboratorio di ricerca. Ma una volta era l’azienda a proporti la tecnologia, a dirti “io ho questo brevetto, creami qualcosa che lo utilizzi”; oggi è il designer che traina, e che combina i vari fattori per creare un prodotto utile».

Parlando del rapporto tra designer e aziende, Marcelli tocca un tema importante. Perché in un paese come il nostro, profondamente manifatturiero, con un tessuto economico composto di innumerevoli PMI (e le PMI non possono permettersi un centro stile, proprio come non hanno risorse per fare R&D in house), il dialogo tra design e secondario non è solo auspicabile: è fondamentale.

«Il problema è che molte piccole aziende non hanno cultura del design, o magari ce l’hanno ma non hanno mai incontrato il designer giusto – dice Marcelli –. Ultimamente ho avuto a che fare con un’impresa dell’Emilia Romagna, un’impresa importante, che però non aveva mai lavorato con un designer… Io mi sono attivato per spiegargli che con un designer si può migliorare il prodotto non solo dal punto di vista estetico, ma anche concettuale».

Certo, perché ci sia un dialogo entrambe le parti devono darsi da fare. Il designer deve sapersi spiegare, il committente deve avere il tempo per poter ascoltare. Secondo Arquilla «c’è bisogno che le imprese riscoprano il valore di fare progetto, ritrovino il piacere dell’innovare, anche sporcando un po’ le loro tecnologie. Uno dei limiti delle PMI italiane è quello di essere ancorate a settori tradizionali».

Occorre, continua il docente, costruire un nuovo tipo di relazione tra aziende e designer, e trovare l’energia per investire in innovazione. «Chi lo ha fatto, nel suo piccolo, ha cominciato a trarre dei vantaggi. Sia chiaro: investire non significa cambiare la productive chain o magari stravolgere tutto ciò che si fa. Significa cominciare a comunicare correttamente il proprio prodotto, andare più verso una dimensione di servizio, capire come ciò che si fa si inserirà in ambienti sempre più intelligenti e tecnologici. Smart, come si dice».

 

TAG: BrainsDay2017, conoscenza, design, designer, innovazione, italia, pmi, tecnodesigner, tecnologia
CAT: BrainsDay, Moda & Design

2 Commenti

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  1. marco-baudino 6 anni fa

    In questa interessante disamina mi piacerebbe appuntare alcune considerazioni sugli impatti ambientali e sociali legati a ogni prodotto, immesso sul mercato. Impatti che sempre di più devono essere valutati a tutto tondo, nel proprio ciclo di vita, dal progettista/designer, dall’idea, alla progettazione con la scelta dei materiali, alla produzione, all’uso e smaltimento, a fine vita. In un calcolo di LCA, la cui analisi determini possibilmente (se non obbligatoriamente) l’assenza totale di fasi critiche per l’ambiente e per l’uomo, in tutto il ciclo di vita di un prodotto, di design o di consumo che sia. Il riferimento teorico a cui ormai ogni progettista e designer dovrebbe rifarsi e’ dettato dalle logiche di “pensiero del prodotto” contenute nel “cradle2cradle principle”, che prevede impatti zero sempre in ogni fase e la totale rigenerazione all’atto del suo smaltimento. Logica a cui suggerirei anche all’autrice di questo articolo di rifarsi. Credo comunque che tutte le persone qui citate dovrebbero essere già consapevoli e conoscitrici di questi principi. Ormai imprescindibili per i nuovi prodotti, visti i problemi di inquinamento e di rifiuti di ogni tipo, industriali e post consumo, che ci opprimono.

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  2. marco-baudino 6 anni fa

    Scusatemi, mancava un pezzo… Riscrivo:
    In questa interessante disamina mi piacerebbe appuntare alcune considerazioni sugli impatti ambientali e sociali legati a ogni prodotto, immesso sul mercato. Impatti che sempre di più devono essere valutati a tutto tondo, dal progettista/designer del prodotto nel proprio ciclo di vita: dall’idea, alla progettazione con la scelta dei materiali; alla produzione, all’uso e smaltimento, a fine vita. In un calcolo di LCA, la cui analisi determini possibilmente (se non obbligatoriamente) l’assenza totale di fasi critiche per l’ambiente e per l’uomo, in tutto il ciclo di vita di un prodotto, di design o di consumo che sia. Il riferimento teorico a cui ormai ogni progettista e designer dovrebbe rifarsi e’ dettato dalle logiche di “pensiero del prodotto” contenute nel “cradle2cradle principle”, che prevede impatti zero sempre in ogni fase e la totale rigenerazione all’atto del suo smaltimento. Logica a cui suggerirei anche all’autrice di questo articolo di rifarsi. Credo comunque che tutte le persone qui citate dovrebbero essere già consapevoli e conoscitrici di questi principi. Ormai imprescindibili per i nuovi prodotti, visti i problemi di inquinamento e di rifiuti di ogni tipo, industriali e post consumo, che ci opprimono.

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