Ritratto di jazzista con moglie. Lee Morgan al cinema

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3 Settembre 2016

Un po’ come succede qualche volta, quando ci si accorge da piccoli segnali – cui magari si era data poca importanza – che una amica (o amico) di vecchia data è in realtà qualcosa di più di una semplice amicizia, quello che ho per Lee Morgan – per la sua musica, ma anche per la sua vicenda umana – sta diventando un vero “amore”.

Quando ero ragazzo mi sembrava un ottimo trombettista hard-bop cui gli appassionati più nerd dedicavano un culto eccessivo, lo ascoltavo con piacere ma non molto di più.

Kasper Collin Produktion AB / Francis Wolff © Mosaic Images LLC

Lee Morgan

Poi Morgan ha iniziato a cercarmi.

Dapprima attraverso la biografia che gli ha dedicato Tom Perchard, che l’editore inglese mi aveva inviato e della cui edizione italiana cui mi sono poi ritrovato a scrivere l’introduzione.
Successivamente attraverso i tanti, fantastici, ascolti che hanno accompagnato la scrittura del suo ritratto incluso nel mio libro Storie di jazz.
Adesso con un film, un documentario diretto dallo svedese Kasper Collin (già autore di My Name is Albert Ayler) nel quale viene ripercorsa in particolare la vicenda umana (e poi tragica) della sua relazione con la moglie Helen.

Un film che difficilmente verrà distribuito nelle sale italiane (ma spero che qualche festival di jazz ci pensi seriamente, se non è troppo impegnato a inseguire la Nina Zilli di turno…) e che probabilmente avrei visto, come succede quasi sempre a chi fa il mio lavoro, sul computer, forse interrotto da una mail che arrivo, con una copia magari scaricata chissà dove, più probabilmente tra un paio d’anni.

E che invece – ditemi se questo non è amore! – è approdato alla Mostra del Cinema di Venezia, in quella Sala Grande che dista solo 5 minuti di bicicletta dalla casa dove sono cresciuto e che ha poltrone comodissime, uno schermo enorme e un audio avvolgente.

Il film di Collin è un documentario rigoroso e formalmente tradizionale, che alterna interviste a materiale d’archivio, ma mi sembra interessante la scelta – dettata da una non eccessiva abbondanza di testimonianze filmate originali – di affidare una parte della narrazione alle fotografie (quelle famose delle sedute di registrazione e dei concerti, ma anche alcune private davvero splendide) e alle immagini della New York di quegli anni.

Lee e Helen

Una parte importantissima è svolta, in una sorta di gioco di scatole cinesi, da un’intervista a Helen che lo studioso e giornalista radiofonico Larry Reni Thomas ha registrato su due cassette pochi mesi prima della morte della donna, nel marzo del 1996.

Perché il film, prima ancora che un film su Lee Morgan, è un film su questa donna forte e controversa, chiacchierona e un po’ sfrontata, che dal North Carolina e da un paio di maternità troppo precoci fugge verso la Grande Mela e trova nel mondo del jazz una ragione di vita.

Helen è la compagna/madre (più matura di lui) che alla metà degli anni Sessanta riesce a tirare Lee Morgan fuori dal baratro umano e professionale in cui la droga lo aveva cacciato.  Quella che gli fa da manager, che gli consente nuovamente di vestirsi in modo elegantissimo – come lui aveva sempre amato – che cucina per lui e i suoi amici, che lo fa diventare puntuale ai concerti cui deve suonare.

La donna che di fronte al fatto che Lee frequenta un’altra (anche lei intervistata nel film), invece di partire per Chicago come un amico saggiamente le consiglia, in una serata nevosa di febbraio del 1972 decide di andare lo stesso allo Slugs’ (club che programmava alcune delle cose più cool del jazz di quegli anni), di litigare con Lee e, una volta cacciata fuori al freddo, tornare dentro per uccidere con la pistola il trombettista.

C’è una quasi unanimità tra i testimoni di quella serata (tanto il contrario non si potrà mai provare) sul fatto che l’arrivo tardivo dell’ambulanza, a causa della tempesta di neve, abbia reso letale quella che forse si sarebbe potuta ricordare come una pistolettata non mortale.

Ma da quel bang non esce solo di scena Lee Morgan. Esce anche Helen, di cui la comunità del jazz perde traccia dopo la condanna (piuttosto mite, grazie alla piena ammissione di colpa) e il ritorno in North Carolina.

Il film, che si chiama I Called Him Morgan (dalla abitudine di Helen di chiamare il marito per cognome, non amando il nome Lee), ricostruisce così le vicende che culminarono nella tragica notte dello Slugs’, affidandosi all’audio della cassetta, al temperamento differente degli intervistati (l’accalorata loquela di un Bennie Maupin fa da controcanto alle memorie quasi dolenti dello storico bassista di Art Blakey, Jymie Merritt), in una costruzione narrativa empatica e sempre coinvolgente.

In quest’ottica, l’appassionato di jazz che si attendesse il classico biopic, potrebbe rimanere deluso: la vita e la musica di Lee Morgan rimangono a volte quasi sullo sfondo. Lee è un trombettista fenomenale, è un uomo controverso, è un tossico, ma raccontare l’evoluzione della sua musica (che pure negli ultimi anni, proprio quelli in cui si svolge l’azione, viveva una rinnovata intensità) e anche del suo carattere, non è una priorità per Collin, che sceglie di farcelo vedere attraverso lo sguardo e le parole – emozionalmente coinvolte – di chi quegli anni con lui li ha condivisi.

Anche l’accenno a Angela Davis e al brano a lei dedicato dal quintetto di Morgan, sembra quasi più funzionale alla narrazione (è il pezzo che il gruppo avrebbe dovuto eseguire al ritorno sul palco dopo l’intervallo, se Helen non avesse sparato) che non a raccontare la sensibilità politica black che Morgan aveva dimostrato in quegli ultimi anni e di cui riferisce abbondantemente Perchard nel suo libro.

È un documentario intenso e personale, quello di Collin, che ci fa vedere Lee Morgan attraverso la storia di colei che lo ha fatto sparire e che è a sua volta sparita, dando contorni quasi mitici a una vicenda che invece è dolorosamente e squisitamente umana.

Si esce dalla sala con la voglia di correre a casa a riascoltare pile di dischi di Morgan. Se non è amore questo…

TAG: film, Jazz, Kasper Collin, Lee Morgan, Mostra del Cinema di Venezia
CAT: Cinema, Musica

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