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Benessere

L’altra Foggia

di Antonio Vigilante
24 Gennaio 2015

Ogni città ha la sua scena ed i suoi retroscena. La scena è la parte elegante, con i negozi ed i monumenti, quella che si mostra ai turisti, se la città è turistica, o ai visitatori. Il retroscena è il resto: i quartieri periferici, residenziali o popolari. In alcune città la distinzione tra scena e retroscena è rimarcata dalla presenza di mura. Così è, ad esempio, a Siena (per i senesi la vera Siena è quella nelle mura o, come dicono, nelle lastre) e ancor più a Grosseto, dove il centro è racchiuso nelle mura esagonali, nettamente staccate dal resto della città. In altre città le due zone non sono così nettamente divise, ed il visitatore rischia in ogni istante di ritrovarsi nel retroscena. Il quale può essere a sua volta decoroso, se non proprio bello come il centro, oppure degradato, o ancora rappresentare una sorta di inferno urbano. E’ chiaro che, se si vuole dire qualcosa della città, occorre considerare entrambi gli aspetti, ed il loro rapporto: l’equilibrio o lo squilibrio tra scena e retroscena.
Dopo aver visitato Foggia, Sara Fumagalli giunge alla conclusione che “Foggia non è una brutta città, i tesori ci sono, ma la bellezza bisogna andarsela a cercare”, pur prendendo nota di “palazzine cadenti, proprietà lasciate a marcire, cani randagi che girovagano famelici per le strade”. Parla della cattedrale, della villa comunale, del teatro, degli ipogei. La scena, insomma. L’impressione è che non si sia spinta molto oltre, che non abbia visto granché del retroscena. Se non si si allontana dal centro storico, l’impressione è quella: una città non bella, ma nemmeno brutta; un posto in cui si può vivere. Ma basta spingersi qualche passo più in là per scoprire l’altra Foggia. Basta fare qualche passo oltre palazzo Dogana, attraversare via Michele Angiolillo (un anarchico foggiano che a fine ottocento fece fuori il capo del governo spagnolo) per ritrovarsi in piazza Tavuto. Sulle cartine non esiste, Piazza Tavuto. Non è nemmeno una piazza. Un piccolo slargo che fino a qualche anno fa era in terra battuta e che il comune, in uno slancio di generosità, volle cementificare. A modo suo: costruendoci un’aiuola a forma di bara, da cui il nome. Il tentativo di riqualificazione si è rivelato subito infelice: i pochi, esili alberi piantati sono stati estirpati, la piazzetta è stata adibita a discarica e il tavuto è stato fatto saltare in aria dai ragazzini del quartiere la notte di capodanno di qualche anno fa.
Piazza Tavuto è uno dei luoghi simbolo del Quartiere Settecentesco, un’area vasta di case fatiscenti, di palazzine pericolanti, di bassi o addirittura grotte, che occupa il cuore di Foggia. Un quartiere nel quale si ammassano i proletari e sottoproletari italiani e stranieri: rumeni, polacchi, africani, cinesi.
Quando i ragazzini del quartiere fecero saltare il tavuto, la piazzetta diventò il simbolo del malessere della città. Un gruppo di cittadini costituì un comitato spontaneo e si mise a presidiare la piazzetta, con il lodevole proposito di protestare contro l’inciviltà. Non ne venne fuori nulla di buono. Il gruppo, che esiste ancora, finì per autorappresentarsi come il consesso dei buoni e bravi cittadini, che cercano di civilizzare gli altri – i barbari, gli incivili. I quali li espulsero, semplicemente, dal quartiere. Pare che lo scorso Natale abbiano fatto, i bravi cittadini, un nuovo timido tentativo di portare un albero di Natale nella piazzetta: che è stato distrutto nel giro di un amen.
Non è, il Quartiere Settecentesco, l’unico luogo del malessere foggiano. C’è perfino di peggio. C’è l’ex-Onpi, un palazzo occupato da famiglie di sfrattati, tra i quali non pochi con la fedina penale non pulitissima. C’è il Campo degli Ulivi, un quartiere di container – sì, container – nel quale da più di dieci anni il Comune ha sistemato altre famiglie sfrattate. E c’è Candelaro, con il suo tasso altissimo di delinquenza.
Eccola dunque, Foggia, vista dall’alto. Una città nella quale la scena urbana è letteralmente assediata da un retroscena ingombrante, rumoroso, sofferente, che urla, che sbraita, che spara. La fragile immagine di quasi benessere è costantemente minacciata dall’irrompere di questo altro inquietante: ed è ora una bomba che esplode in pieno centro, ora una rissa il sabato sera.
La domanda sulla bellezza di Foggia è oziosa. A chi importa se Foggia è bella o brutta, se c’è gente che vive nei bassi, nei container, nelle grotte? Andatelo a chiedere a un bambino che cresce in una grotta, con l’umidità, senz’aria, se Foggia è bella o brutta. Foggia è una città nella quale la povertà ha spinto e sta spingendo sempre più migliaia di persone verso condizioni di vita che non hanno molto a che fare con gli standard del cosiddetto primo mondo. Una città nella quale il malessere, la sofferenza, lo sconforto, la delusione, la rabbia sono palpabili – si respirano con l’aria, si toccano con le cose. Impregnano ogni sapore, colorano ogni visione. Il gesto dei ragazzini che fanno saltare in aria l’aiuola a forma di tavuto è un gesto ciecamente politico, un atto di ribellione inconsapevole. Che può prendere altre forme, più pericolose: dalla violenza gratuita del vandalismo alla delinquenza vera e propria.
I politici che hanno amministrato la città negli ultimi decenni hanno una responsabilità gravissima. Nulla o quasi è stato fatto per i poveri, nulla o quasi per contrastare la deriva dei quartieri. L’assessorato ai servizi sociali, un assessorato chiave in una città come Foggia, è stato spesso affidato a persone che si sono distinte per incompetenza. I poveri hanno fatto e fanno comodo, come riserva di voti facili. Basta qualche promessa o anche solo una cena elettorale. Fa comodo che ci sia tanta gente in condizione di bisogno, facilmente strumentalizzabile.
A Foggia manca una cosa fondamentale per una città: la fiducia. O meglio: quel tipo particolare di fiducia che i sociologi chiamano fiducia sistemica. Che significa sapere che il sistema funziona, che ci sono regole e procedure efficaci e condivise. Che se hai un diritto, quel diritto ti verrà riconosciuto. Come in altre città meridionali, segnatamente quelle malate di mafia, Foggia è una città in cui la gente da tempo si è abituata a rinunciare a questa fiducia. Ed a sostituirla con altro. Se voglio ciò che mi spetterebbe di diritto, devo rivolgermi a qualcuno, e dare qualcosa in cambio. E se ho i contatti giusti, posso ottenere anche ciò cui non ho diritto. Posso farlo anche se non ho particolari contatti, ma ho dalla mia l’arroganza e la violenza.
Più che altrove a Foggia sono evidenti le conseguenze perverse del finanzcapitalismo, ed in particolare lo spaventoso squilibrio nella distribuzione della ricchezza. Secondo l’ultima indagine di Bankitalia, in Italia il 10% delle famiglie possiedono il 46,6% della ricchezza. Quello che è interessante è che la concentrazione della ricchezza negli ultimi anni è aumentata: in altri termini, la crisi economica rende più ricchi i ricchi e più poveri i poveri. Non sono in possesso di dati riguardanti Foggia, ma è evidente che più che altrove nel capoluogo della Capitanata lo squilibrio nella distribuzione della ricchezza sta producendo una vera e propria terzomondizzazione di una fascia non esigua della cittadinanza. Un sottoproletariato sempre più disperato, che forse non sarà più così facile tenere a bada con le strategie consuete del sistema clientelare. Le scene recenti di occupanti dell’ex-Onpi, che hanno bloccato corso Garibaldi con i cassonetti dell’immondizia per rivendicare l’allacciamento del gas, dovrebbero far riflettere.
La questione posta da Sara Fumagalli è di grande importanza per i foggiani, ai quali non è mai andato giù il giudizio attribuito ad Alberto Moravia – Foggia come città più brutta d’Italia. Così come non vanno giù i rapporti annuali del Sole-24 Ore, che la relegano puntualmente agli ultimi posti tra le città italiane per qualità della vita. Non manca chi ritiene che liberarsi da un’autorappresentazione negativa, e riscoprire la bellezza anche dove sembra non esserci, sia un passaggio fondamentale per la rinascita della città. E può essere che abbia ragione. Ma il rischio è che il retroscena una volta di più diventi osceno, venga rimosso e spostato nell’ombra. E il rimosso, si sa, prima o poi ritorna, e spesso ritorna in modo violento.

 

Nell’immagine di copertina: Foggia, Vico Dolo. Foto di Antonio Vigilante.

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