La Milano di Pisapia è mediocre. Quella dei renziani o di Salvini sarà meglio?
“Noi a Pisapia lo abbiamo detto: ci deve dire con chiarezza se si candida o no entro la fine dell’estate”. Così parlavano i renziani di Milano quando l’estate, pur timida, era nel suo pieno svolgimento. Poi, alla fine, settembre è arrivato, e poi ottobre e infine novembre: strariparono i fiumi e soffiarono i venti, ma quella riserva sulla sua ricandidatura, in vista di un 2016 ormai vicino, il sindaco di Milano ancora non l’ha sciolta.
Da tempo, nel solito gioco di specchi che rende indistinguibili verità, auspici e messaggi in bottiglia, gira una sintesi sostanzialmente condivisa: “Giuliano è stanco, esasperato, e avrebbe anche voglia di dire basta”. Dire basta e lasciare il campo ad altri per ritirarsi a vita privata? O dire basta, piuttosto, perché chiamato ad altri incarichi – Corte Costituzionale, Csm? – in modo da non dare la sensazione della resa consentendo, tuttavia, a nuove (o vecchie) ambizioni di provare a mettersi in campo? O non dire basta, e piuttosto ricandidarsi, e rinviare il rinnovamento di qualche mese o di qualche anno evitando, però, che all’interno del centrosinistra di Milano si apra con esiti non facilmente prevedibili, compresi schizzi di “sangue e merda”, la partita della successione? Già, perché in assenza di una ricandidatura da parte del sindaco uscente, la scelta non sarebbe banale. Di sicuro i candidati e gli autocandidati, gli interessi rappresentati e i gruppi di aspirazione e pressione, si stanno già preparando. Che non capiti che la serata di gala venga annunciata all’improvviso, e li trovi senza qualcosa di adatto da mettersi.
I più pronti, forti del fuoco dei trent’anni, sono i giovani renziani della prima ora – massimo della prima ora e mezza – raccolti attorno al circolo 02Pd e in quello, più recente e più legato al mondo delle professioni, della Pallacorda. Il segretario cittadino Pietro Bussolati, giovane uomo d’ordine del partito milanese; l’assessore alla mobilità e ai trasporti pubblici Pierfrancesco Maran, che dentro alla giunta Pisapia si sta distinguendo con iniziative concrete e visibili sulla mobilità e lo sharing; la parlamentare e recentemente candidata a diventare ministro degli esteri Lia Quartapelle; è lungo quest’asse generazionale di renziani più giovani di Renzi che potrebbe uscire il nome del dopo. In perfetta armonia con il renzismo più ortodosso.
Chi pure non sta perdendo tempo per riprovarci, nonostante diversi precedenti sfortunati, è Stefano Boeri. Candidato alle primarie del Pd dell’era Bersani-Penati, sconfitto proprio da Pisapia che lì prese l’incredibile rincorsa per la vittoria del 2011, infine assessore con deleghe via via ridotte fino al licenziamento, voluto da Pisapia, alla fine dell’inverno del 2013, Stefano Boeri non ha mai fatto mistero di voler riprovarci, con la politica, e di non aver mai del tutto digerito lo smacco. Per un attimo il momento sembrò arrivare la scorsa primavera, quando si ipotizzò una sua candidatura come capolista del Pd al nordovest per le elezioni europee, prima che il il marketing decisionista di Matteo Renzi imponesse una rosa di capitane tutte al femminile. Ma Boeri non ha perso la voglia di provarci: ha cofondato con Daniele Nahum il circolo Pd Città Mondo, e proprio da quelle parti è stata promossa una petizione per lo smantellamento a fine Expo dell’Expo Gate, architettura progettata da Alessandro Scandurra, dopo concorso voluto dal Comune, e allestita in pieno centro , proprio di fronte al Castello Sforzesco. Proprio in questi giorni un primario istituto di ricerche, su mandato di Stefano Boeri, giusto ieri insignito di un importante premio per il suo Bosco Verticale, sta sondando la sua popolarità e la sua eventuale forza elettorale.
(Expo Gate, foto di Filippo Romano)
Alternative a Pisapia, naturalmente, potrebbero spuntare anche dalla sua attuale giunta. Chi sicuramente ci penserebbe è un ex bersaniana ora renziana “light” come vicesindaca e assessore all’urbanistica Ada Lucia De Cesaris. Fedelissima di Pisapia, da lui promossa sul campo a sua vice, ha fama di chi al sindaco risolve molti problemi pratici mentre ne crea – spigolosa al naturale – qualcuno diplomatico. Tutto del resto non si può avere. È vero anche per Pierfrancesco Majorino, assessore al welfare in un comune con sempre meno mezzi economici e sempre più emergenze pratiche – la crisi che impoverisce i milanesi, la globalizzazione che riempe a ondate i giardini di Porta Venezia di profughi – che dopo anni di lavoro in città e in consiglio comunale va costruendosi ormai una fama consolidata e una rete di relazioni solida. Il suo nome, per un dopo Pisapia, sul tavolo di diritto, per una candidatura che metta insieme la sinistra del partito e un pezzo del civismo ambrosiano, mentre diverse resistenze troverebbe sul suo cammino “al centro” qualunque cosa sia diventata. Nel perimetro del partito e del centrosinistra, certo, la concorrenza non manca, come avete visto se siete arrivati a leggere fin qua. E ancora non abbiamo parlato di chi, nonostante tutto, ancora butta sul tavolo il nome di Beppe Sala, amministratore delegato di Expo2015, o attende che lasci definitivamente la direzione del Corriere Ferruccio De Bortoli per diventare anche lui un papabile a “papa straniero”, o che – perfino – torni in pista, con un cognome in grado di suturare le piaghe del Novecento, il direttore de La Stampa Mario Calabresi. Giusto per dire, non si fosse capito, quanto è affollato il cielo delle ipotesi sotto il cielo di Milano. Naturalmente, in tutte queste ipotesi, nessuna riesce a sembrare solida quanto basta per disegnare un nuovo assetto di poteri, tanto che i soliti che comandano, invecchiati e magari un po’ indeboliti, sembrano destinati a stare lì: l’ottantenne Giuseppe Guzzetti di Cariplo, per fare un nome, o quel che resta della lobby dei costruttori che a suo tempo aveva in Claudio De Albertis il suo uomo di punta.
Le cose più importanti per le vite di centinaia di migliaia di milanesi, naturalmente, succedono ben lontane dal perimetro politico e politicista dentro al quale, necessariamente, si giocano le partite sul futuro di una colazione e di un’elezione. Lontano da quel centro di terrazzi, salotti, week end lunghi in campagna e dalla confusa auto-definizione di borghesia in chi non ha pensieri da così tante generazioni da potersi, onestamente, considerare aristocratico. Là fuori, lontano dal centro di Milano e da quella mitica “zona 1”, della quale il sindaco è un prodotto e un attore forte da sempre, la città ribolle di umori complicati.
Seppure è vero che la città continua a resistere all’urto della crisi economica di più e meglio del resto del nord che viveva di industria, molti indicatori dicono di una crisi che ha morso e continua a mordere, sempre più in profondità, il tessuto della capitale economica del paese. Il tasso di disoccupazione relativo alla provincia, ad esempio, si è quasi triplicato in appena cinque anni, superando l’8 per cento e a fare impressione sono i dati sulle aspettative di futuro che nutrono le famiglie milanesi. In una ricerca, commissionata dalla Camera di Commercio a Ipsos nello scorso aprile, ad esempio, un terzo delle famiglie milanesi dichiarava di attendersi una sensibile restrizione del reddito, con tutte le conseguenze del caso sui consumi, sulle speranze e sugli investimenti di centinaia di migliaia di milanesi. Chi vive il fronte delle nuove povertà che si radicano, o di quelle vecchie che si allargano, racconta di una scena diventata comune che riguarda italiani, di mezza età, con decenni di vita piccolo borghese alle spalle, che chiedono aiuto: cibo, coperte, l’aiuto per trovare un tetto.
(Il tasso di disoccupazione di Milano e provincia, in rosa, e della Lombardia, in azzurro, su dati Istat elaborati dalla Camera di Commercio di Milano)
Il tetto, già. Nella città che ha visto cambiare nell’ultimo decennio il suo skyline con la nascita del nuovo quartiere direzionale e con residenze di lusso a Porta Nuova, l’emergenza-casa si fa ogni giorno più violenta e più percepita. Secondo i dati elaborati dalla Sicet-Cisl lo scorso maggio, le famiglie sotto sfratto erano arrivate a 13 mila, registrando la più elevata tensione abitativa degli ultimi 25 anni. In questo contesto, il logoramento istituzionale tra Regione e Comune, e il clima tesisissimo che domina Aler da molti anni, hanno portato a un divorzio nella gestione del patrimonio di case popolari. Il Comune ha deciso di affidare le sue (decine di migliaia) a una controllata dal Comune, la MM, società che gestisce la Metropolitana Milanese. Che ovviamente non ha al suo interno le competenze necessarie, essendosi storicamente occupata delle metropolitane, e infatti è ora presa da una corsa contro il tempo per riuscire a farsi trovare preparata, reclutando professionalità adeguate. Non sarà facile, come non lo è quasi nulla, di questi tempi.
Lontano, quasi sullo sfondo, chi dovrebbe stare in primo piano. Se arriviamo solo ora a parlare di Expo non è perché ce lo siamo dimenticato come modesti narratori delle cose milanesi, ma perchè abbiamo preferito dimenticarcelo come cittadini. Siamo davanti all’occasione persa più grave perché, dopo tutto, era manna dal cielo piovuta senza averla cercata, avendola addirittura ereditata. Un’iniziativa testarda e un po’ fuori tempo di Letizia Moratti aveva portato Expo 2015 a Milano. Quando l’idea salta in testa alla prima cittadina la crisi è ancora di là da venire, non è nemmeno esplosa ancora la crisi dei mutui subprime: ere geologiche. Ma quando Pisapia e la sua giunta se la trovano in mano la crisi è esplosa e l’occasione è di quelle ghiotte. La precedente gestione si è incartata, ma l’evento è già in arrivo; il tema – cibo e dintorni – funziona; bisogna lavorare sodo, stare addosso al dossier, farlo crescere e farlo diventare un’occasione di marketing globale per una città che, nonostante la moda e il design, in Italia, resta vaso di coccio tra i vasi di ferro nella capacità di attrarre visitatori stranieri e attenzione turistica. Con questi obiettivi, data la fortuna di stare seduti, a Milano, nel mezzo delle più importanti piattaforme territoriali di produzione e trasformazione alimentare di qualità del mondo, avremmo potuto accontentarci ci diventare la capitale mondiale del cibo e del vino. Là dove c’era un’industria oggi c’è una città piena di ristoranti, e un programma per attrarre senza sosta, ben oltre il 2015, milioni di persone per mangiare e bere a Milano. Certo, bisognava – da Milano – poter guidare un’azione di lobbying vera sulla connettività internazionale della città, a cominciare dal ruolo degli aeroporti (mentre il milanese Lupi non si si capisce che ruolo stia giocando, e se abbia obiettivi precisi, dato che anche lui continua a essere uno dei papabili alla candidatura a sindaco, nonostante il magro risultato delle scorse europee); bisognava poter contare su un asse solido col presidente della regione (Maroni, Roberto Maroni: ve lo ricordate?); immaginare un marketing territoriale che avesse in Expo e nella sua struttura il suo perno comunicativo e strategico; insomma fare di quell’evento una leva per riappassionare Milano a se stessa, forti di una visione di città futura.
Che sia andata diversamente – piange il cuore a dirlo – tocca riconoscerlo già adesso. Gli scandali si sono seguiti con la regolarità delle stagioni, ma ormai di essere la capitale morale, noi di Milano, ce l’eravamo tolto dalla testa e quasi, perfino, siamo riusciti a non scandalizzarci: e anche questo è grave. Non meno grave, però, è arrivare con l’Expo alle porte in ritardo su tutte le tabelle di marcia possibili, con un po’ infrastrutture promesse che saltano, con altre che vengono realizzate pur essendo palesemente inutili (la Brebemi), e senza un progetto per quei mesi: anzi, dando la sensazione che si spera tanto che passino in fretta, indolori, e non come se fossero una grande opportunità che sta davanti a noi. In questo fallimento dell’immaginazione – va detto – il sindaco ha una sua responsabilità precisa: quella di non aver vissuto neanche per un giorno come se Expo fosse un valore, un’opportunità, ma trasmettendo sempre la sensazione di allegria di chi porta un peso, un’eredità sgradita che non ha proprio potuto rifiutare. Magari Expo andrà “benino”, invece che “da schifo”: ma i milanesi sanno già che non sarà una svolta. E meno male che sono abituati – dai secoli o appena da ieri, quando sono arrivati – che è il loro destino, e anche questa volta se la caveranno da soli, come fanno oggi inventando spazi di condivisioni, esperienze di lavoro innovativo, modelli di cooperazione: nel silenzio, che della classe dirigente si può fare anche a meno.
E insomma, cosa resta di quella Milano che fu mito di innovazione, laboratorio anche brutale di mutamento politico, termometro sempre acceso a segnalare l’Italia che cambiava verso? Resta poco, forse qualche istantanea. Quella del “lupo” Matteo Salvini che, anche se nega, ci sta pensando con ogni forza. Sì, a candidarsi sindaco nel 2016, e a giocarsela fino all’ultimo voto. Non è facile, ma nemmeno impossibile, ed è una tappa naturale per un leader politico che sogna in grande, conosce la retorica della periferia contrapposta al centro e sa che quella retorica, nel centro di Milano, conta i suoi involontari e numerosi sostenitori. Una sfida a Renzi sul terreno nazionale, nel breve periodo, lo vedrebbe sicuramente perdente, e allora tanto vale costruirsi le spalle “in casa”, nella sua città. Dentro la crisi; le rabbie; i treni persi; le periferie pericolose o immaginate come tali; nelle miserie che si sfogano sui tasti delle sale slot; nella semplificazione che crede alle case popolari piene di zingari; nei suburbi tenuti in piedi coi soldi delle mafie, e nessuno ne parla perché finire a terra sarebbe peggio. Milano ha tante anime, e ha sempre avuto e covato anche un’anima nera, arrabbiata, reazionaria: quella che, forte del dialogo tra la nuova Lega e l’estrema destra, ha riempito piazza Duomo qualche settimana fa. E Salvini, naturalmente, sa anche questo.
(L’immagine di copertina è stata disegnata per Gli Stati Generali da Thomas Libetti)
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