Come hanno reagito gli italiani alle misure graduali di ripresa delle attività? Chi ha potuto ha continuato a lavorare in smartworking, e la maggioranza ha limitato al massimo le uscite da casa.
Le mappe dell’ultima settimana di maggio restituiscono un paese che fatica ad abbandonare l’emergenza, ancora bloccato, sospeso tra ripartenza e attesa (anche di una seconda ondata) e afflitto da fughe in avanti frenate e caotiche, con una diversità di approcci difficile mettere insieme e armonizzare.
La presa d’atto della discontinuità (è interessante che siano prima di tutto le donne ad assumerla) convive con la ricerca di rassicurazione della normalità, paradossalmente più marcata nei giovanissimi. Come prevedibile le prime note di risveglio si coconcentrano al centro, centro sud e nei piccoli centri, di fatto meno interessati dalla crisi sanitaria.
L’adesione alle misure restrittive, le regole imposte e autoimposte, le precauzioni, rimangono comunque le parole d’ordine. Sembra esserci qualcosa di più di un effetto congiunto di prudenza, depressione e preoccupazione. Stare in casa è diventata un’abitudine da cui è difficile ripartire. Siamo lontani dai meme ironici che hanno contraddistinto le prime settimane di lockdown e più che una liberazione sembra, semplicemente, un trasferimento in un altro isolato, più brutto, triste e meno protetto.
Gli italiani non hanno ripreso a frequentare i centri commerciali e soprattutto non prevedono di farlo. Si potrebbe ipotizzare uno spostamento nelle aree esistenziali del privato ma non è così. Nonostante la fine dei divieti non si frequentano gli amici, congiunti o meno che siano, e soprattutto non si frequentano insieme.
l risultati ci dicono che i rapporti ‘uno alla volta’, programmati, non contengono molta gioia e non danno vero svago e piacere. Insieme alla revisione delle priorità della vita, i valori importanti e le grandi riflessioni sul senso delle cose, anche questo hanno imparato gli italiani. Senza spontaneità, la vita blindata perde il suo gusto e ci disabitua alla sfida del ‘qui e ora’ con tutte le sue incognite.
Si pone dunque il problema di come aprire le nostre vite da questo effetto di chiusura, conciliando la sicurezza con il recupero di una libertà interiore che prescinde delle regole e ha che fare, piuttosto, con l’umore e il nostro sentire più autentico. L’assenza di incontro occasionale con lo sconosciuto e con l’estraneo, inibiti prima ancora che interdetti, lasciano un grande senso di vuoto. La prospettiva del cosiddetto tempo di qualità delle vacanze, di fatto per molti impossibili, non sembra aiutare molto.
Si avverte l’esigenza di una narrazione collettiva e una prospettiva comune in grado di trasformare il sordo rimpianto del passato in una azione di trasformazione. Se da una parte sono sempre i politici ad attrarre le critiche degli italiani, emerge anche un disagio e un’insofferenza che i cittadini rivolgono a se stessi. Svelando la fragilità di una società di solitudini connesse.
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