Da che parte la vogliamo vedere, dalla parte di un Paese a secolare tradizione cristiana? Abbiamo perso una fede, ma in questo caso uno non vale uno. No. Per simboli, storia, tormento, in questo caso uno vale moltissimo di più. Dio, suo figlio Gesù, Francesco e tutta la Chiesa di Roma, i preti che incessantemente si battono sul territorio del mondo, i nostri piccoli riti, le messe negate al tempo del Covid, il segno della croce, il padre nostro. Abiti vecchi. Gli abiti vecchi. È come se in quei quattrocento metri, il tempo di scendere dall’aereo e tuffarsi nell’abbraccio dei suoi, Silvia che ora si chiama Aisha avesse gettato alle ortiche un armamentario neppure scomodo, neanche tanto ingombrante. No, proprio inutile. Indossando convitamente la sua nuova divisa sociale, è come se Silvia che adesso si chiama Aisha in qualche modo ne avesse illustrato l’inconsistenza. Vogliamo dire che quell’impianto che ci siamo dati bambini, quando i genitori ci trasferivano quelle quattro nozioni da rispettare, quell’intimità da costruire anche con un po’ di ipocrisia, quell’obbligo domenicale della messa, la preghiera prima di dormire, oggi non tiene più? Perché continuiamo meccanicamente a indicare ai nostri ragazzi la fede cattolica come la stella polare se intorno a questa costruzione non c’è più un pensiero profondo? Se il progresso ha una sua inesorabilità, e infatti tutto cambia, si evolve, evidentemente la fede cristiana deve trovare le sue nuove chiavi d’accesso.
Da che parte la vogliamo vedere, dalla parte della politica? L’episodio, la storia tutta, hanno qualche elemento di eccezionalità, che va oltre persino i 18 mesi di patimento della povera Silvia. Ma è anche una sceneggiatura in qualche modo scolasticamente troppo perfetta, che, per dire, sarebbe scartata per vizio di ingenuità al Centro Sperimentale di Cinematografia. Silvia che parte da Milano per aiutare i bambini africani, Silvia che viene rapita e reclusa per un anno e mezzo, Silvia che viene salvata dai nostri Servizi con pagamento di riscatto, Silvia che torna in Italia e dichiara di avere abbracciato la fede islamica. Adesso mi chiamo Aisha. Eppure è quanto è successo.
Tornando alla politica. Abbiamo assistito a un meccanismo ben consolidato – quello di una certa destra che non poteva sperare di meglio – e poi dell’altro, quello della sinistra, che ha rivelato i suoi limiti, la sua incapacità di assorbimento, il suo tentativo di dire: sono soltanto questioni che riguardano la sua coscienza. Statene fuori. Rispettatela. Un sottile velo di censura sotto copertura costituzionale, quell’art. 19 che giustamente garantisce ogni fede religiosa. Per la destra, si è detto: Silvia parte Candy Candy e ritorna Aisha col velo. Non ci sarebbe stato episodio più perfetto neppure nell’idea di un Socci, per dirne uno, perché di Sallusti ormai sappiamo e vediamo tutto. A sinistra c’è il vero sbandamento e come poteva essere diversamente. La sinistra crede di avere il diritto di intestarsi il cambiamento interiore di Silvia, pensa di doverla proteggere dalla volgarità della destra, chiede, intima quasi, a tutti quelli, anche i ragionevoli che si pongono qualche dubbio sul percorso di Aisha, di non intromettersi. Usa la parola sciacalli. Alza un muro e di fronte a quelli che insistono a voler capire di più, cerca interpretazioni spericolate, tipo Quartapelle: «Chi si erge a giudice di sue scelte private mi sembra come chi giudicava Moro in mano alle Brigate Rosse. Nessuno sa cosa può provare una persona nelle mani dei suoi carcerieri». Una scempiaggine in purezza.
Forse non vogliamo dircelo, qui in occidente.
Ma una ragazza che parte con quel sorriso che aveva Silvia e che poi torna con gli abiti di una religione diversa, gli abiti dell’islam, fa ancora impressione. Non è una normalità. Non è ancora una normalità. Conforta che Silvia che adesso si chiama Aisha, quel sorriso lo abbia conservato anche nella sua nuova condizione e lo ha mostrato ieri, abbassando la fastidiosa mascherina che celava il suo bel viso. Ma qui si discute sulla possibilità che una conversione così eclatante possa generare una minima riflessione, rispettando innanzitutto l’autodeterminazione della sua protagonista. Interrogarsi sui percorsi delle persone, aiuta a capire meglio anche le nostre fragilità. Partendo da un dato, la sua lunghissima detenzione con gente molto per male. Ha inciso nelle sue scelte? Non è soltanto questione da psicanalisi, è un fatto di grande rilevanza sociale, che attiene a molti dei sentimenti che quotidianamente pratichiamo come persone di poca o di molta fede. Molti cristiani vogliono capire, vorranno capire. Se sarà possibile capire e un giorno Aisha si sentirà di spiegare. Ma anche noi che siamo piuttosto peccatori e scarsi frequentatori di acquasantiere, confessiamo un certo smarrimento. Guardiamo a Silvia con un rispetto enorme e immaginiamo di ricomprenderla nella conversione che ha segnato la nostra piccola, grande, storia sportiva: quando Cassius Marcellus Clay, era il 1964, decise che era venuto il tempo di annunciare il suo ingresso nella Nazione dell’Islam. Come nome aveva scelto Muhammad Ali e nessuno oggi si sognerebbe più di chiamarlo con il suo vecchio.
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È una questione molto importante. Noi solitamente ci fermiamo alla superficie delle scelte altrui, non cerchiamo di capire e non vogliamo mettere in discussione il nostro modo di vivere, di pensare o di credere.
Quanto sarebbe utile capire il pensiero sincero di coloro che si convertono, il perchè profondo di una scelta. Loro potrebbero aiutarci, noi da soli rischiamo di cadere in dietrologie e luoghi comuni.
Forse capirei questa babele di parole se Silvia fosse tornata Eugenio. Probabilmente no, è un argomento di tale irrilevanza sociale da fare invidia al colore dei calzini di un giudice.