Il corpo torna vivo solo se è il tuo. Non è speculazione?

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2 Febbraio 2020

Il mercato dell’arte è uno specchio assai fedele della nostra società contemporanea. Totalmente a-sentimentale, vive esclusivamente di speculazione, laddove – ovvio – la cultura lo permetta. Si va alla ricerca di sacche ancora inesplorate, o non sufficientemente esplorate, riportando alla luce reperti umani che credevamo perduti nella storia, da (ri)offrire a collezionisti o a clienti dell’ultima ora come nuovi fenomeni artistici, ancorché vecchissimi. In questo modo, le valutazioni si gonfiano per un periodo X, nel quale si assiste a una corsa all’artista tornato alla luce, per poi rientrare fisiologicamente nei valori più realistici. E il guadagno è fatto. Poi ci sarebbero anche le bolle, ma questo riguarda essenzialmente l’arte supercontemporanea dove piccoli fenomeni del momento vengono sparati sul mercato con generoso uso di anabolizzanti. È un po’ la supercazzola a cui siamo abituati anche qui, nel nostro mondo di scrittorelli, quelle terrazze spalancate sul nulla che generalmente vengono affidate alle Guia Soncini del caso.

Per restare a questioni che abbiano un minimo di dimensione culturale, nei giorni passati abbiamo assistito alla riesumazione della sacra salma dell’obesità, a cui in questo ultimo tempo i social hanno restituito l’antico splendore. Come vedete, i social tolgono, i social danno. Sono esattamente i social, proprio come nel mondo dell’arte, a scegliere le nuove sacche speculative, a spingere in una certa direzione che si pensava dimenticata da dio e dagli uomini. E chi si ricordava più dell’obesità, se non per il fatto che continuava a essere un problema sociale, sia a livello psichico che fisico? Ma certo, sapientissimi dealer, che “sentono” il mercato come bestie ferite, hanno immaginato che la nuova vita dell’obesità potesse rinascere sotto le spoglie del dileggio e dell’insulto, non tanto del problema in sé, ampiamente dibattuto e vivisezionato dalla storia in tutte le sue dolorose sfaccettature.

I social hanno questo, di ragguardevole: rendono visibili fenomeni che sono già ampiamente diffusi all’interno della società, ma che ovviamente ognuno di noi vive solo nella marginalizzazione della propria vita. Un po’ quello che è successo nel passaggio dai giornali di carta ai giornali online. Chi ha mai conosciuto un suo lettore, da giornalista dei vecchi quotidiani. Si immaginava un gioco, in quei tempi belli e disordinati. Si diceva, al collega in redazione: pensa se pubblicassimo il tuo indirizzo privato, quanti lettori pensi di trovare la mattina sotto casa? “Due, ma per sfancularti”, rispondevano gli altri in coro. Ma il giocherello finì al primo giornale online, che era Linkiesta (quella vera eh), quando non passavano che un paio di secondi che il lettore inviperito ti lasciasse il suo ricordino nei commenti: “Fusco, come al solito non hai capito un cazzo!”. Ecco, le distanze si erano ridotte al punto quasi di annullarsi.

Quando l’altro giorno Filippo Sensi, il parlamentare Sensi, ha fatto sentire il suo discorso alto e forte su come una società civile e civilizzata, dunque il Parlamento che ne è espressione diretta, abbia la necessità e il dovere di dare una qualche forma giuridica a quella ignobiltà diffusa che è il dileggio del corpo altrui, da cui la vergogna, il cosiddetto body shaming, si sono levate tutte le voci del consenso, suonando trombe e campane a quelle parole così sentite e responsabili. Giusto. Ha mostrato anche un libro significativo, il Filippo, che a suo avviso aveva dato voce al problema e alimentato il dibattito. Nessuno ha avuto un dubbio, neppur minimo, che questa non fosse magari una bolla, una speculazione social, sapientemente studiata, di un problema ch’era già di tutta evidenza, ma che restava confinato, come è sempre successo, agli studiosi, alle inchieste, ai libri che ne parlano, alle esperienze vissute?

E giusto per rientrare nella dimensione dell’arte. Questa accelerazione (speculativa?), ha vissuto quel fenomeno che in quel mondo viene chiamato «body art», dove l’artista, generalmente donna, lavora esattamente sullo strumento corpo, il suo corpo. Ve ne indicheremmo una, a cui siamo più legati: Gina Pane. Ebbene, è successo che anche oggi, per imporre un punto di vista – ripetiamo amplissimaente dibattuto – si sia dovuti ricorrere al proprio corpo: lo ha fatto Filippo Sensi, ricordandosi bambino, lo ha fatto in tutti questi mesi la scrittrice di successo, e di riflesso, nei circolini social di riferimento, lo hanno fatto tutti i suiveur dei protagonisti. Come dire: se il fenomeno esiste, è perché NOI lo abbiamo creato, è solo perché NOI lo abbiamo vissuto. Una sollecitazione artificiale di un problema molto, molto reale. Ecco perché probabilmente si è trattato, come per il mercato dell’arte, di una speculazione.

Ora si tratta di capire se i social che tolgono e danno dobbiamo considerarli uno snodo ineludibile della nostra condizione umana, in grado di modificarne anche gli equilibri, o non ristabilire un po’ di ordine naturale riportandoli a quello che realmente sono: un’espressione anche acuta, sensibile, significativa, della società. Ma non la sua essenza.

 

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CAT: costumi sociali

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