Sputiamo su Hegel o su Morelli?

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29 Giugno 2020

Se stiamo ai social (almeno quelli italiani), dovremmo concludere, oltre ogni ragionevole dubbio, che al mondo femminile nulla sfugge. Che anche la più piccola sporcatura sul sentiero dei principi e del rispetto, verrà sanzionata senza pietà. Che qualunque maschio si azzardi a banalizzare il complesso mondo delle relazioni tra gli uomini e le donne, involgarendolo o, peggio, introducendo un seme violento, verrà offerto al pubblico ludibrio come la bestia sacrificale sull’altare del riposizionamento democratico. Con una sensibilità così pronunciata, unita alla forza centrifuga della Rete, la conseguenza quasi naturale sarebbe quella di avere uno straordinario movimento femminile di massa. Un movimento che esce dal virtuale della sua cameretta per farsi finalmente carne e sangue, solidarizzare fisicamente, guardarsi negli occhi e alla fine organizzare la Protesta. Ancora e sempre nelle piazze, che cosa più bella non c’è. Con un ordine del giorno molto, molto, chiaro: mettere paura. Perché questo è stato sempre l’obiettivo. Non il dialogo, meno che mai qualunque riconoscimento.

E invece le piazze restano vuote, perché?
Se la grande musica è stata già tutta composta, anche la grande battaglia femminista è stata già tutta combattuta. Quei livelli sono inarrivabili, per stile, concretezza, profondità, abbattimento dei simboli. Persino crudeltà. Per cui, riprendere in mano gli stessi strumenti, cinquant’anni dopo, sarebbe non solo anacronistico, ma anche un po’ ridicolo. Questa è una prima difficoltà. Se ogni ragazza, ogni donna, a livello personale, e poi collettivo, ha ben chiaro il percorso da fare e gli obiettivi da raggiungere, ci sarebbe da interpretare il proprio tempo per capire come fare. Questo tempo è un tempo veloce, esageratamente veloce.

Non è un tempo di studio, dei fenomeni e della storia, piuttosto è un tempo parcellizzato. Dove ognuna cura il proprio piccolo pezzo di terra, lo difende, lo coltiva. Mille e mille giardini ben curati, attenti al dettaglio, sensibili, persino suscettibili, che però non diventano quasi mai vero territorio comune. Se qualcosa accade dentro il mio recinto, lo segnalerò e lo affiderò alla grande prateria social e lei, la grande madre Rete, penserà ad avvertire tutte le sorelle sparse per il paese con un “accorrete numerose!, c’è qualcosa che dovete sapere”.
Sarebbe sciocco e anche un po’ da anime belle rifiutare il pregio della tecnologia, applicandola alle grandi, possibili, battaglie. Conoscere per deliberare, e in un amen, è un’opportunità straordinaria, se solo si sapesse, o si avesse anche una vaga idea dello sbocco al mare. Invece i social, e non solo per la questione femminile, ovvio, sono un incantatore subdolo, che rendono apparentemente fruibili, o addirittura risolvibili, tutte le questioni, anche le più spinose, per poi, alla luce della loro complessità, farcele scappare di mano, scivolose, insomma non mettere a reddito democratico una battaglia sui principi, piantarle nella terra anche con la violenza necessaria.

La questione degli obiettivi è definitiva. Rispetto al passato, c’è un cambio di passo e di prospettiva evidenti. La forza del movimento femminista era ignorare i singoli, non farli diventare protagonisti. Mai si sarebbe data soddisfazione a un mezzo cretino perché diceva “qualcosa”, qualsiasi cosa. Semmai si puntavano i simboli della storia per disintegrarli, per rimettere tutto in discussione, per rovesciare l’ordine maschile costituito. C’era una terribilità nelle battaglie femministe, quasi un estremo da cui non si sarebbe più tornati indietro. I maschi sapevano, e se non sapevano almeno sentivano. E ne avevano paura. Era il tempo, in un certo senso straordinario, della sfida.
Oggi i social regalano una comodità. Ignorare questo aspetto sarebbe anche un po’ scemo, soprattutto per i vantaggi della contemporaneità planetaria, ma certo queste nostre camerette virtuali possono consentire a tutti/e un compitino preciso, pulito, ordinato. Al riparo da qualunque sporcatura, le mani ben lavate, il visino soddisfatto per avere “sistemato” ora tizio ora caio. È ordinatissima furia solipsista. La strategia delle “migliori”, della più note tra voi, è piuttosto evidente ormai. Si identifica lo zimbello, l’improbabile (se ha qualche passaggio dalla D’Urso sfiora la perfezione) colui il quale, e neppure tanto sotto pressione, dirà delle cose che non stanno né in cielo né in terra, lo si farà cadere nelle sue stesse secche, per esercitare uno strapotere intellettuale di ritorno di una comodità esagerata. In questo senso, il caso di Morelli è perfetto, quasi da laboratorio. Da lì partirà un tam-tam incessante che sarà il centro del dibattito social per un’intera giornata e anche oltre, spacciandolo per lotta politica. Da ogni cameretta,

orgogliosamente, partirà una solidarietà, un contributo, ognuna si sentirà protagonista. Piazze vuote, computer pieni. Da sputare su Hegel a sputare su Morelli.
Ma che lotta è mai questa? Se le piazze restano vuote, il sospetto che un certo compiacimento estetico si sovrapponga alla radice di un problema reale è molto forte, l’idea che al fondo il compitino quotidiano di “sistemare” i conti, non con la storia più grande com’era un tempo, ma piuttosto con storie personali, evidentemente piccole, di soggetti variamente miseri, è vincente rispetto all’esercizio di una profondità che costerebbe decisamente più fatica e più impegno. E soprattutto c’è un dato finale, malinconico: gli uomini, oggi, non hanno paura delle donne, purtroppo. Noi ci cagavamo addosso.

TAG: Hegel, michela murgia, Raffele Morelli
CAT: costumi sociali

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