Panscenìa

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7 Settembre 2020

La tragicommedia pandemica che ha tenuto per mesi il cartellone e ancora lo tiene, è una delle più straordinarie pièce teatrali a cui mi sia stato dato di assistere nel corso di una ormai non troppo breve vita. Per il futuro non posso pronunciarmi, ma il presente, quanto a repliche, promette bene. L’evento umano meno disponibile alla finzione, quello meno rappresentabile con autenticità, la morte, è entrata a pieno titolo a far parte della messa in scena. L’intreccio mediatico le è intessuto in trama così fitta da inghiottirla e metabolizzarla. Morte e rappresentazione (della morte) sono diventate una cosa sola. Il conteggio dei cadaveri si è mutato in prologo e, poi, chiusa di ogni cabaret mediatico. Se, tra i numeri snocciolati dall’annunciatore, si ha la fortuna di scovare un nome noto il necrologio scenico di routine ha modo di trasformarsi in coccodrillo, elzeviro o, appena lubrificato, in articolessa. Tra una canzonetta e una battuta di spirito. Così, grazie alla pandemia, anche l’alterità assoluta può adeguarsi al palcoscenico travestita da Colombina. In un crescendo di realismo scenografico che di volta in volta trova la sua pezza d’appoggio nella panzana, spacciata ormai per etica, del “tempo reale”. Raggiro essenziale per in-formare l’utente. Lacrime, stanchezza, disperazione, buoni sentimenti e banalità da portantino in pausa caffè. Tutto fa brodo. Nessuna morte rimane impunita, nessuna viene perdonata. Tutte si trasformano in una sola grandiosa ordalia universale nella celebrazione della quale ciascuno è stato – ed è ancora, non sappiamo fino a quando – spettatore e, insieme, protagonista. La libidine di essere parte della catastrofe fa gemellaggio con la strizza di crepare. Credere davvero che tutto questo sia finzione è, ovviamente, altrettanto ingenuo che ritenerlo reale. Nel mondo iperattuale concetti come “finzione” e “realtà” sono affatto inadeguati. Tutto è, in ugual misura, una cosa e l’altra e, in più, una terza per la quale ancora fanno difetto le definizioni. Che il cadavere sia inequivocabilmente morto, e per di più esposto in soggiorno, davanti alla tv, non lo rende meno adatto ad essere utilizzato come fantasma. Anzi. La fantasmagoria è tale solo quando il fantasma è effettivamente morto. In caso contrario si tratterebbe soltanto di una festicciola tra amici nel corso della quale tra un drink e l’altro, per divertirsi un po’, ci si traveste. La compattezza della tessitura mediatica è tale, ormai, da non consentire più a nessuno di fare distinzioni tra l’ordito della finzione e la trama del reale. Il migrante disperato e l’imprenditore milionario playboy – ugualmente disperato ma troppo imbecille per rendersene conto – conquistano la scena da asintomatici e vi si insediano intubati. Ogni piccolo burocrate, ogni podestà di provincia, ogni sbirro ed ogni puliziere di corsia può godersi, scavalcando qualche cadavere, un quarto d’ora di celebrità. E avere per un poco il nome in cartellone.

TAG: coronavirus, Cultura, giornalismo, italia
CAT: costumi sociali, Media

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