Cara piccola borghesia…
“Storicamente e politicamente, il piccolo borghese è la chiave del secolo. La classi borghese e proletaria sono diventate astrazioni: la piccola borghesia, al contrario, è dappertutto”
Roland Barthes
Ai bei tempi in cui al paeselo c’erano le lucciole, ogni arancia riposava avvolta nella sua velina e i paesologi non ci paesologizzavano la minchia, la si definiva “piccola borghesia”. Qualcuno forse se lo ricorda ancora.
A me, come a molti del mio giro, accadde senza colpa di farne parte.
Per nascita.
E di dover poi tentare disperatamente – con fatica e non senza pagarne il prezzo – di venirne fuori. Fuggendone come si fugge dalla lebbra.
Qualcuno fuggì nella direzione sbagliata e qualcun altro – non tra i peggiori – nella fuga ci rimise perfino la pelle come traditore dei sacri valori.
Si sbagliò parecchio. Ma – come poi cantò il poeta – era un mondo adulto. Si sbagliava da professionisti.
Oggi l’uso corrente non ammette più alcun riferimento a stratificazioni di classe che comportino l’allusione a una possibile conflittualità sociale – come insegna il giornalista e ribadisce l’artista “siamo tutti nella stessa barca…”.
Perciò la “piccola borghesia” non si sa più come chiamarla.
Sembrerebbe aver fatto la fine di quell’altro caro estinto, il “proletariato”: cascami sociologici da portare al macero come rifiuti ingombranti.
Invece niente è più lontano dal vero: l’omissione del vocabolario non corrisponde affatto alla realtà.
In quella plurimillenaria rottura di coglioni che va sotto il nome altisonante di “storia dell’umanità” non si dà un trionfo culturale che sia, neppure lontanamente, paragonabile al suo.
La nostra epoca è quella della piccola borghesia incoronata. La sua apoteosi.
Pierre Bourdieu, diversi anni fa – quando ancora la sociologia non praticava barzellette da osteria e, per l’appunto, esemplarmente “piccolo borghesi” come “la signorilità di massa” – definiva il piccolo borghese “un uomo perduto in una specie di bluff che consiste nel mettere le apparenze davanti alla realtà, nel nominarle per il reale”.
L’ascaro d’ogni fascismo e la marionetta per qualsiasi barbarie. Un burattino che può essere, di volta in volta, ridicolo, bestiale o ambedue le cose.
Tutto vero.
Solo che, a qualche decennio di distanza, si ha l’impressione che la marionetta si sia ingigantita e trasformata. Non in Pinocchio, però: in Mangiafuoco. Attualmente si può dire che gestisca il teatro.
Parlo di trionfo “culturale” perché non faccio riferimento a fasce di reddito o posizioni lavorative particolari, voglio dire piuttosto che è stata la concezione del mondo piccolo borghese a sbaragliare la concorrenza.
Essa è appannaggio di chiunque. Anzi, per essere più precisi, chiunque è di suo appannaggio: multimilionari, portapacchi, regnanti ed ex regnanti, magnati dei media, astronauti, maestri d’asilo, killer occasionali e seriali – anche le loro vittime – professori universitari, lavacessi, cantanti, truffatori internazionali, venditori all’incanto, filosofi e teatranti.
In ogni ambito la forma mentis del bottegaio domina senza contrasto.
Una weltanschauung da magliari è diventata il canone aureo della saggezza universale e chiunque non vi si adegui è fuori concorso.
Le sue icone pullulano: in politica, nel giornalismo, nella finanza, nella scienza e nell’arte. Dappertutto – dalla geopolitica alla cronaca nera – eccelle la sua retorica miserabile e la sua inarrivabile ferocia che si sposa a un sentimentalismo da avvinazzati: si foraggia il massacratore ma si versa una lacrima per il massacrato.
L’omologazione è assoluta.
Al di là delle apparenze – che narrano di fiabesche contrapposizioni epocali – non c’è nessun “altro”. C’è solo una versione differente del “medesimo”.
Da un lato il Giovanni Vivaldi di Monicelli, mediocre e – a suo dire – moderato, che legge “Libero” e “il Giornale” e poi si trasforma all’occorrenza in torturatore e assassino, dall’altra Bouvard e Pécuchet che si beano agli elzeviri di Gramellini e di Michele Serra, ponzano con Aldo Cazzullo e ti spiegano la rava e la fava sul patriarcato, le questioni di genere e la crisi climatica ma, pure loro, quando c’è da tagliare i coglioni a qualcuno, non si fanno certo pregare.
A livello apicale è lo stesso: c’è, da una parte il Milei che vuole liberalizzare il commercio di organi umani, dall’altra uno qualsiasi dei cari leader liberal del pianeta che, mentre un governo di criminali attua carneficine senza precedenti, gli garantisce copertura internazionale e quattrini.
Insomma, la visione del mondo cinica e brutale – dietro una maschera di ipocrita moderazione – che un tempo apparteneva ai baciapile è diventata universale e non può perdere.
Neppure quando perde.
p.s
I commenti che ho allegato all’immagine di copertina si riferiscono – solo per comodità – all’ultimo evento mediatico disponibile. Per quanto si tratti di un fatto di cronaca la weltanschauung di cui sopra vi si manifesta in maniera imponente ed estremamente istruttiva perché vi si rileva sia Vivaldi (“Esponiamo il colpevole nella pubblica piazza e diamolo in pasto alla folla”) che Pécuchet (“Educazione affettiva in tutte le scuole del regno”).
Sono stati pescati in maniera del tutto casuale.
Quando li ho composti per postarli mi sono accorto che, su quattordici, undici sono scritti da donne.
Lo faccio notare solo per dovere di cronaca: senza nulla a pretendere.
p.p.s
Cesare Beccaria nacque a Milano nel 1738.
Se non mi sbaglio saranno, a marzo, 286 (duecentottantasei) anni.
Quasi tre secoli.
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