La morale dei servi

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10 Maggio 2020

La ricchezza si trascina la povertà al guinzaglio. Procedono assieme e nessuna delle due ha un senso se non in relazione all’altra.

Nessun ricco è ricco se non ha una povertà sulla quale calibrare il suo privilegio e nessun povero è povero se non ha una ricchezza alla quale commisurare il suo svantaggio.

E’ un guinzaglio che si estende ma non può ritrarsi: mentre, nella sua corsa, la ricchezza si porta dietro la povertà, la distanza tra l’una e l’altra non diminuisce ma si accresce.

Al ricco fa comodo definire “invidia sociale” la percezione della minorità che grava sul povero e l’indignazione che ne deriva, perché così facendo mette quest’ultimo in stato di inferiorità – anche – morale gravandolo, oltre che dello svantaggio materiale di essere povero, anche di quello spirituale di essere moralmente inadeguato. E quando il povero, giustamente, prova a rendere con ogni mezzo meno gravosa, per sé e per i suoi figli, la nemesi del lavoro e dello sfruttamento quotidiano lo stigmatizza come fannullone, mangiapane a tradimento che consuma e non produce.

Il gioco così è fatto: il povero non è solo povero è anche doppiamente colpevole. Povero e rancoroso, povero e sfaticato: consegnato all’inferno in questa vita e nell’altra.

Chi è per il ricco, invece, il povero ideale? Quello che, non essendo invidioso e rancoroso, non morde se non la briglia e i suoi simili, allo scopo, confacente alla legge del mercato, di trasformarsi anche lui, un giorno, in ricco a loro spese. E’ questo il povero che piace ai governanti. Potrà servire da modello per tutti gli altri e, in veste di “uno che ce l’ha fatta”, spiegare loro che “la ricchezza non è una colpa – la povertà, invece, sì… – che bisogna pensare positivo, tirarsi su le maniche e lavorare, lavorare, lavorare”.

E’ la morale dei servi; che oggi può però avvalersi anche delle fanfaronate accademiche sulla “società signorile di massa” che mettono in ghingheri ciò che ogni cummenda, da un secolo e mezzo, recita quotidianamente dopo aver sorbito il campari: in Italia non si lavora abbastanza! Andate a lavurà! Nel corso di quel secolo e mezzo, però, gli stessi baroni accademici – facendosi offrire, nelle pause tra una lezione e l’altra, il campari dal cummenda di prima – ci rassicuravano che la distanza tra ricchi e poveri era destinata fatalmente ad attenuarsi per via dei magici meccanismi autoregolativi del sistema liberista.

S’è visto quanta ragione avessero, loro e la retorica liberal-progressista. Quella distanza non solo è aumentata ma è diventata incolmabile: e questo non per cause contingenti (la “crisi”, il “coronavirus” ecc.) o perché le nuove generazioni non vogliono studiare né lavorare (per via, dicono quei sapienti, nientemeno che del sessantotto!) ma per le caratteristiche genetiche di un sistema fondato sul successo e sul profitto personale da conseguire spietatamente, a spese di chiunque e con qualsiasi mezzo.

Un sistema criminale che premia i cinici, gli ipocriti e i farabutti.

https://www.youtube.com/watch?v=v1uZ5SQ0BJs

 

 

TAG: Cultura, italia, Lavoro, politica
CAT: costumi sociali, società

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