Per una epidemiologia della stupidità 5 – Il diluvio

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22 Aprile 2020

Mi chiedo se altri Paesi, con l’occasione della pandemia, abbiano subito un’alluvione di retorica, sentimentalismo e ipocrisia anche solo vagamente paragonabile a quella che ha investito l’Italia.

Ne dubito.

Da noi una tradizione secolare di propensione al melodramma, ampollosità e furberia levantina costituiscono il letto di scorrimento per un fiume che alla prima occasione si gonfia, tracima e inonda. Ciò che rende devastante la piena è che in Italia quel fiume scorre lungo sconfinate pianure di mediocrità prezzolata che non oppongono, al dilagare, neanche gli argini del pudore. Essa si espande così senza barriere per territori sconfinati. Lo strato orografico argilloso e impermeabile di una popolazione anestetizzata da decenni fa il resto.

Dall’ittiofauna di buona pezzatura che prospera sui fondali limacciosi del conformismo (intellettuali di successo, giornalisti di grido…) fino alla minutaglia che si nutre dei suoi scarti (manovalanza professionale, mezzi colti, pennivendoli di provincia) le varietà endemiche trovano nella fiumana l’ambiente di vita ideale.

Su questo fiume di retorica – offerta come prodotto sapienziale – gli indigeni che hanno voce si urlano a vicenda oscenità d’ogni genere; ciascuno insulta l’altro perfino quando sembra che gli interlocutori stiano intavolando un dialogo socratico; ma la mota, sul fondo, resta inerte e li nutre tutti allo stesso modo, cosi che nessuno di loro potrebbe desiderare un ecosistema differente.

Il colpo d’occhio è spettacolare: dal tenutario di bordello che invita a non tener bordello, al virologo da strapazzo che strapazza gli altri, dalla puttana che dà esempio di ritrosia all’imbecille che fa mostra d’arguzia. La superficie s’increspa convulsamente ma sotto il pelo dell’acqua non si muove nulla e il torbido vi regna incontrastato. In quel ciarlare scomposto, nella sapienza da ballatoio, nel susseguirsi di cifre e di parole che non parlano di niente e pur ripetendosi identiche si contraddicono follemente non si coglie un senso e, del resto, esprimerne uno che non sia la pulsione ferina a marcare il territorio, supererebbe la capacità di quelle bestie parlanti.

Le parole, scritte o pronunciate, diventano emblemi di autoaffermazione, dicono se medesime e niente altro. Non significano più nulla.

Ingoiano se stesse e si ricacano con il diabolico metabolismo autoreferenziale dello zombie che è morto ma non muore.

La chiacchiera s’incammina sferragliando rumorosamente lungo itinerari risaputi e percorre binari precostituiti.

Tutto ciò che può essere detto lo è già stato mille volte e lo sarà altre mille, perennemente identico a se stesso.

Il deserto del senso assume la configurazione di un labirinto nel quale nessuno si perde perché tutti già sono perduti.

Su questa distesa alluvionale di enfasi ignobile, sotto il cielo plumbeo della più spregevole melensaggine, in mezzo a questo assordante gracchiare e gracidare e stridere, intanto, tutto intorno l’Italia muore.

E non per malattia.

TAG: coronavirus, Cultura, giornalismo, italia, politica
CAT: costumi sociali, società

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