Racconto domenicale I

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27 Maggio 2018

La valigia

Tina si chiamava Tina, la ragazzina adolescente che amò o meglio si convinse di amare, quando gli fu predestinata. Grassoccia, con un viso rotondo dolcissimo, gli fu concessa in fidanzatina da una famiglia ancora legata ai valori del passato. Poi lui emigrò e la portò nel cuore come affetto residuale della sua terra e come ramo neanche marginale o caduco delle sue radici. Adesso dal 109° piano del suo skyscraper, dove campeggiava la scritta “Jo Macaluso Enterprise Co.”, vedeva il nero della notte profilarsi sull’East River e laggiù alle sue spalle il sole immergersi nella sua di notte, lasciando come ricordo una coltre maligna che avvolgeva Manhattan. Una lacrima che poi divenne rivolo gli fece capire che avrebbe dovuto sanare il problema, adesso subito. Chiamò Connie, la segretaria di sempre, piccola, ma incrollabile, incerta ma indefettibile e le chiese il biglietto per Roccaducina. Lei se lo aspettava, eccome, era da tempo che ci girava attorno a quel problema ed il biglietto era da sempre pronto, open, da chiudere al volo, appunto. Lei non gli rispose neanche, andò a prendere quel foglietto e lo consegnò senza profferire parola. Jo la guardò con riconoscenza non tanto per il biglietto, la conosceva bene e se lo aspettava ma perché lei non avrebbe fatto caso al rivolo che gli conferiva un’aria modesta, vulnerabile, umana.

Partì per un viaggio dal quale non sarebbe tornato, ma tutto era a posto, consegnato alle generazioni successive, figli e nipoti che sapevano già quel che c’era da fare, anzi lo aspettavano decisamente. Un viaggio senza ritorno; abbandonando la casa di Long Island, la vecchia costruzione liberty, da anni la dimora di famiglia, sarebbe andato verso un monolocale senza servizi dal quale non sarebbe mai più uscito. Lì avrebbe concluso il suo lungo, lunghissimo viaggio durato una vita, lungo come un sogno e finito con un tramonto sul fiume Hudson. Mentre la vecchia ciminiera sbuffava per arrestarsi, raccolse le sue poche cose e scese verso una capanna che fungeva da stazione di Roccaducina. Nessuno, non c’era nessuno, soltanto un sole a picco alle 15 di un giorno estivo con temperatura talmente torrida da non essere neanche più percepita. Si avviò verso il paese, nessuno lo accompagnò, tranne un cane randagio con un lingua alitante che esprimeva in quel modo la sua indignazione verso il Creatore che non dava tregua con quel caldo immorale, a giudizio del cane. Dopo alcune stradine, arrivò in una piazza che si prolungava a dismisura ed in fondo vide un piccolo bar aperto, la tenda di corde che sbuffavano anch’esse per il caldo e si agitavano solo quando qualcuno le sollevava per entrare, dando a ciascuna corda frescura e sensazione di vitalità. Solo un vecchio era seduto al tavolo intento a tenere più che leggere un giornale sdrucito forse di qualche giorno addietro. Jo lo intravedeva ma non lo riconosceva, era ancora lontano si avvicinò per capire chi fosse lo sconosciuto, unico esemplare umano in quell’apparente deserto che è Roccaducina quando arriva uno da fuori. Vide una calotta cranica calva, ossuta, malacica e malata, gli parve familiare quella macchia sulla tempia. Poi lo riconobbe. Lo stesso fece il lettore del giornale, che fu scostato, per dare modo al nuovo venuto di vedere gli occhi che ormai da tempo lo scrutavano. Si riconobbero come due pistoleri nel Far West ma il lettore del giornale fu più lesto e disse per primo: “ Tal’è cu c’è, Peppino Macaluso, ma chi ci fai ccù stà valigia ? Stà partennu?

O muthos deloi oti, la favola insegna che..  diceva Esopo. Appunto, solo chi non conosce le dinamiche della Sicilia può pensare che la kermesse di scolari, studenti, mamme e quanti altri si volessero accodare, possa combattere e tanto meno distruggere non la mafia intesa come concerto criminale organizzato ma quella mentalità mafiosa strisciante che è cappa incombente, nebbia che il più integerrimo dei siciliani respira, involontariamente suo malgrado. Leonardo Sciascia, perfettamente consapevole di questo, si sarebbe messo a ridere. E temo che anche Falcone e Borsellino, eroi impavidi, che combatterono con i fatti, che capirono tutto del fenomeno criminale e che conoscevano a menadito l’intimo psicologico del palermitano, avrebbero sorriso di fronte a queste parate che il giorno dopo lasciano il tempo che trovano. Diceva Falcone “Seguite il filo dei soldi”. La mafia se ne fa un baffo della retorica, ascolta, scrolla le spalle, ridacchia e poi va in banca. E’ lì che si fa la vera antimafia, chiudendo i canali finanziari e speculativi che ormai hanno valicato mari, monti e oceani, come hanno insegnato Falcone, Borsellino, Terranova, Chinnici, lo stesso Caponnetto e prima di loro Pietro Scaglione. Certo, la mentalità impregnata è dura a morire, ci vorrà molta istruzione nelle scuole e soprattutto nelle Famiglie. Arduo, molto arduo.  Come per le domeniche a piedi in cui lo smog sale invece di scendere per percorsi che non sono neanche oscuri, se non ai politici che le promuovono.

La vera lotta alle mafie non si fa negli anniversari ma tutti i sacrosanti giorni, notti incluse!

 

TAG: Da Scaglione a Borsellino, Mafia e antimafia, palermo
CAT: Criminalità, Palermo

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