La violenta banalità del male mafioso

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8 Maggio 2023

CATANIA. Centoventisei è uno spettacolo intenso, asciutto e generoso al contempo, asciutto nel disegno registico, generoso nel concedersi intelligente degli attori a quella storia prima che al pubblico. Uno spettacolo politicamente pessimista nella lettura della realtà, ma questo non è un difetto. Il testo è di Claudio Fava e di Ezio Abate, la regia, il lavoro drammaturgico sul testo e le scene sono di Livia Gionfrida, in scena ci sono David Coco (Gasparo), Naike Anna Silipo (Cosima), Gabriele Cicirello (Fifetto). Dopo aver debuttato al Teatro Biondo di Palermo, si è visto dal 28 aprile al 7 maggio a Catania sulla scena nel contesto della stagione dello Stabile Etneo.

Una giovane donna a Palermo, convintasi profondamente che il “lavoro” del marito Gasparo, soldato di mafia, killer silenzioso e di solida esperienza, provochi misteriosamente la fine anticipata delle sue gravidanze, dopo tanti anni di matrimonio, finisce con l’uccidere quel suo uomo per salvare la vita e il futuro della creatura che porta in grembo. È semplice sintetizzare così quanto accade in scena, mentre il titolo fa riferimento a quella Fiat Centoventisei rubata, e in seguito imbottita di tritolo per far saltare in aria il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta nel luglio del ‘92. Fifetto è il mezzo balordo, “picciotto” l’“apprendista mafioso” che i boss decidono di affiancare al killer d’esperienza per svolgere quel piccolo furto da nulla. Eppure, suo malgrado, il suo ruolo si arricchirà di significati ulteriori e positivi e in vista della catastrofe di questa tragedia. Come si diceva, il segno registico è asciutto: lo spettacolo sembra dispiegarsi come una danza circolare simbolica dalla quale fuoriescono i personaggi a dire, narrare, dialogare, illustrare, lottare, agire, commentare obliquamente i pezzi di quella miserabile e violenta realtà del male che è la mafia. La regista avvia e accompagna questa danza, macabra e assurda, sostenendone il ritmo, disegnandone con tratto leggero, ma incisivo e quasi simbolico, i vari quadri, proponendo affondi di senso e dolore che gli attori sanno cogliere perfettamente. Non ci sono grandi misteri e nemmeno diaboliche menti: la sostanza di tutto sono profitto e violenza bestiale, il “capo mandamento” che comanda a bacchetta il silenzioso e disperato Gasparo è un “animale”, l’ultimo omicidio che Gasparo deve compiere è quello di un amico e un po’ gli dispiace (è riluttante ma lo colpisce, lo porta al mare su un barchino, lo fa annegare con una pietra al collo), non c’è nulla da fare e capire: ha sgarrato, deve morire. Va così in quel mondo e non ci si ribella. Il male è miserabile, codardo, violento e pervade tutto e tutti ma la prospettiva da cui viene focalizzato e investigato in questo lavoro è quella bassa dell’ovvietà, dell’usuale banalità, della normalità mafiosa. Interessante è piuttosto riflettere sulla reazione di Cosima a questa situazione: è una reazione semplice, di basica sopravvivenza, una reazione disperata. Cosima cede alla forza della vita e alla paura del maleficio, cede al senso di una giustizia divina che è misterioso castigo o premio da meritare, avverte confusamente che quel suo uomo, amatissimo e silenzioso, non si libererà mai del male in cui è avvolto e in cui, inevitabilmente, tiene avvolta e bloccata anche lei, e si ribella infine usando tra l’altro la vicinanza di quel Fifetto, ladruncolo e improbabile play boy di quartiere, che hanno messo accanto a Gasparo. Si è detto all’inizio che questo lavoro è caratterizzato da una vena di pessimismo che, al fondo, è tipico di Claudio Fava e di molti siciliani, liberi, colti e coraggiosi della sua stessa generazione. C’è da chiedersi se Cosima poteva soltanto uccidere il suo Gasparo per salvare e far nascere la creatura che portava in grembo. Solo da un assassinio, per quanto disperato, poteva venire il futuro di quella nuova creatura? E che futuro è quello che immagina quella madre? Chissà: Cosima avrebbe potuto denunciarlo quel marito mafioso, sarebbe potuta andare dalla polizia e farlo arrestare. Quella ribellione avrebbe perso il sapore di tragedia ancestrale, che questo spettacolo conserva, ma sarebbe stata più efficace. La verità è che in fondo anche Cosima è (e resta) una vittima della tirannide mafiosa: dopo aver interrotto nel sangue e con la violenza la maledizione di quel killer, forse voleva solo condurre una vita “tranquilla”, con un omicidio sulla coscienza ma senza vedere, sentire e dire nulla. Salva lei, salva la sua creatura, ma affondate e maledette ancora una volta quella città meravigliosa e quella terra incantata in cui questa vicenda viene immaginata e collocata. È una possibilità tristissima ma concreta. È anzi ciò che accade quasi sempre. Quasi inutile ricordare quanta cronaca siciliana ci stia raccontando, proprio in questi giorni, questa disperante miseria morale, politica, civile. Una miseria con cui – come nel caso di questo spettacolo – è necessario fare i conti fino in fondo e senza sconti: nella presenza quotidiana in Sicilia e nella consapevolezza culturale, nell’arte, nella politica e nell’economia: il pessimismo non è ancora una resa, e speriamo di non perdere l’equilibrio della ragione e del coraggio e di non arrenderci al male e alla violenza.

Centoventisei

Teatro verga Catania, dal 28 aprile al 7 maggio 2023. Di Claudio Fava ed Ezio Abbate
drammaturgia, scene e regia Livia Gionfrida, con David Coco, Naike Anna Silipo, Gabriele Cicirello. Assistente alla regia Giulia Aiazzi. Disegno luci Alessandro Di Fraia. Produzione Teatro Stabile di Catania – Teatro Biondo Palermo. Crediti fotografici: Rosellina Garbo

 

TAG: Centoventisei, Claudio Fava, Ezio Abbate, Livia Gionfrida, Sicilia
CAT: Criminalità, Teatro

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