Eventi

Srebrenica: le radici dell’odio

Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario del genocidio di Srebrenica. Genocidio, riconosciuto tale dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2007 e che poté compiersi anche grazie alla colpevole passività del contingente di caschi blu olandesi

4 Giugno 2025

In questi anni di guerre totali, di stragi e morti inique, la memoria non può non andare al genocidio di Srebrenica, di cui ricorre quest’anno il trentesimo anniversario, il più terrificante e osceno massacro delle guerra in Bosnia Erzegovina avvenuto nel luglio del 1995 e che verrà ricordato il 10 Giugno, in un convegno alla Triennale di Milano organizzato da Caritas Ambrosiana e IPSIA. Ottomila uomini, adulti e ragazzi , bosniaci musulmani, rastrellati, uccisi e gettati in fosse comuni, dalle milizie serbo-bosniache sotto il comando di Ratko Mladić e Radovan Karadžić, condannati all’ergastolo all’Aja, dopo una lunga latitanza in Serbia.

Genocidio, riconosciuto tale dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2007 e che poté compiersi anche grazie alla colpevole passività del contingente di caschi blu olandesi,  il Dutchbat, poi processato in patria, che non garantì la sicurezza della cittadina bosniaca e la protezione dei civili, segnando il fallimento più tragico nella storia delle missioni di pace delle Nazioni Unite.

Srebrenica come simbolo della volontà di annientamento contro un intera comunità nazionale in una guerra che dissolse la Jugoslavia, iniziata quattro anni prima e che nessuno era stato capace di fermare. Quando nel giugno del 1991 gli abitanti di Gorizia e poi tutta Italia in televisione videro sull’altro lato del confine gli scontri tra l’esercito jugoslavo e le forze slovene si capì che il sogno di un Europa in pace fino agli Urali, nato con la caduta del Muro di Berlino, stava lasciando il posto ad un disordine violento e che degenerò nel Balcani, nella prima guerra in Europa dopo il 1945.

Il conflitto aperto e la separazioni tra le repubbliche della Federazione jugoslava era arrivato al culmine di una profonda crisi economica e politica del paese, di cui non si colsero allora le conseguenze geopolitiche e che metteva in luce la difficile transizione dei regimi comunisti dell’Europa orientale transizione che stavano avvenendo nel collasso statuale, imprevisto nel suo rapido evolversi, della stessa Unione Sovietica, nel vuoto di potere determinatosi che fece riemergere e riesplodere divisioni, scontri su linee di frattura politiche, religiose, identitarie e culturali.

Non vi è dubbio che lo sfaldamento delle varie componenti nazionali dall’Urss fornirono un esempio emulativo a quelle jugoslave, e la percezione, rivelatasi poi esatta, che Mosca non avrebbe avuto il potere e la forza di intervenire per una soluzione volta a mantenere l’integrità statuale e politica della federazione fondata da Tito nel 1945. Rapidamente nel giro di un anno, una sequenza di eventi destabilizzanti: l’indipendenza dei paesi baltici, quelle simultanee di Slovenia e Croazia, la guerra con Belgrado dove il nazionalismo del leader serbo Milosevic fu l’ oggettivo propulsore della deriva violenta, la prima guerra civile in Georgia e in altre zone del Caucaso, il fallito colpo di stato a Mosca e la definitiva crisi di legittimità politica dell’Unione Sovietica che si sciolse il 25 dicembre del 1991, mentre imperversava la guerra tra Serbia e Croazia e l’assedio della città di Vukovar.

Da lì a pochi mesi, il conflitto si sarebbe esteso in Bosnia Erzegovina, con l’assedio di Sarajevo, in una guerra destinata a durare fino al novembre del 1995. Una guerra assurta a conflitto paradigmatico nel quale emersero tratti e peculiarità che avremmo ritrovato in seguito altrove, tra i quali:

a) l’emergere dell’ideologia etno-nazionalista che fu motore e istigatore decisivo nel provocare i conflitti e rappresentò l’esito finale del processo di decadenza dei regimi comunisti e dei loro gruppi dirigenti e utilizzato scientemente da questi nel tentativo di ridarsi una legittimazione, dopo la fine dell’esperienza socialista, un etno-nazionalismo che si manifesterà in forme particolarmente virulente e violente nei Balcani e nelle ex repubbliche sovietiche nel Caucaso dopo il 1989.
b) La ri-nazionalizzazione delle politiche estere degli stati. Liberi dal condizionamento della logica dei blocchi, molti paesi tornarono a declinare la politica estera in termini di interessi e sfere di influenze anche contrapposte, il che nella guerre jugoslave provocò approcci divergenti dei vari attori europei, Germania, Francia e Gran Bretagna, che resero difficile una risposta unitaria ed efficace, superati solo dall’intervento esterno degli USA dell’amministrazione Clinton.
c) Il fallimento politico delle Nazioni Unite. L’impotenza nel sanguinoso assedio di Sarajevo e l’ignavia dei caschi blu olandesi a Srebrenica, saranno purtroppo una condizione che si riprodurrà ripetutamente nella storia successiva di un Istituzione dimostratasi da allora incapace di affrontare le crisi politiche internazionali che si evidenziava sotto vari aspetti, dalle autorizzazioni all’uso della forza di difesa, al mandato dei caschi blu, all’autorità di negoziare tra le parti in conflitto.
d) Il ruolo dei sistema dei media ,come osservatori e come parti agenti nel conflitto
Da un duplice punto di vista, nel paese in conflitto, dove la propaganda pervasiva, la disinformazione sistematica risulto determinante nella costruzione del Nemico e dell’odio etnico da parte dei media nazionali, ancora prettamente televisivi generalisti, controllati dagli apparati politici.
E all’estero, dove la guerra ebbe un ampia copertura dei network internazionali che oltre a svolgere un importante testimonianza, determinarono una risonanza rilevante nel coinvolgimento della comunità internazionale. In un contesto dove modalità di diffusione, sovraesposizione, distorsioni ed uso puramente emozionale di immagini e cronache, provocarono corto circuiti sfruttate dalla propaganda di guerra con caratteristiche che avremmo visto ripetersi negli anni successivi ulteriormente potenziati, in altre aree di crisi internazionali e conflitti.

La genesi della violenza


In questi anni si sono analizzati soprattutto le concause politiche, economiche, i nodi irrisolti, la miopia della diplomazia internazionale nella dinamica del conflitto.
Tuttavia per spiegare Srebrenica, mi chiedo se non sia necessaria anche una chiave di lettura, una riflessione sulla genesi e la natura della violenza agìta su quelle persone e comunità. Srebrenica fu episodio culmine parossistico, di una guerra brutale fatta di città e paesi assediati e distrutti rastrellamenti, vendette, stupri sistematici, deportazioni, eccidi e fucilazioni sommarie. Per anni ci si è interrogati su come sia stato possibile che i figli, gli eredi della Jugoslavia partigiana, della pedagogia del progresso socialista, leader dei paesi non allineati,  si siano resi protagonisti di una simile tragedia, odio, violenza ed orrore.

Il modello di integrazione rappresentato dal padre della patria fondatore della nazione, della “fraternità e unità” aveva retto per dieci anni dopo la morte dello stesso Tito. Ma scomparsa quella identificazione carismatica, una crisi alimentata da vari processi, dalla fine della guerra fredda, dalle stesse forze centrifughe della modernizzazione, portò le varie repubbliche a ripiegare sull’identità dello singolo stato nazione di appartenenza: il “nostro popolo” prima degli altri, un etnia, una religione, un capo. Mitologie di rifondazione pseudo storica, presunte grandezze perdute e umiliazioni da vendicare. Ed è nel momento in cui per affermare la propria si nega ad altri la storia, l’identità e il diritto che compare inevitabilmente la violenza.
L’etno-nazionalismo con la sua cultura maschilista, l’esaltazione di un patriarcato antico , la rifondazione mitologica della patria, il culto della morte, e la guerra sacrificale, fu inoltre profondamente femminicida, diremmo oggi, estraneo e contro le donne, riconosciute dai nazionalismi nel solo ruolo di vedove dei caduti al fronte o altrimenti oggetto degradato dello stupro come arma di guerra.

Si capì allora che quando una comunità e una statualità muore e si rompono i legami sociali, quella rottura rischia di propagarsi come un epidemia virale, ai legami individuali e intra-soggettivi, retrocedendo a meccanismi di identificazione primaria, a logiche identitarie regressive. E il vicino, il compagno di scuola, l’amico, diverso per cultura, religione, tradizioni, esperienze, quella persona può così diventare progressivamente ” l’altro” e “l’estraneo”.
Uno slittamento prima semantico, di linguaggio d’odio e poi fattuale, fino a trasformarsi nel capro espiatorio della comunità, fino a diventare “semplicemente “ il nemico da uccidere.
Il paese venne pervaso da elaborazioni paranoiche , pulsioni di morte, odi paure e impulsi violenti proiettate sul “nemico” esterno, che si potenziarono a vicenda, cementando identità di gruppo omicide, psicosi persecutorie che travolsero individui e intere comunità inermi.

C’è da chiedersi quanto abbia pesato in Jugoslavia, nell’incapacità a resistere all’impatto violento dell’etno-nazionalismo e di veri e propri gruppi criminali che conquistarono il potere, l’assenza di legami solidi e duraturi tra le sue varie componenti dovuti alla mancanza di democrazia, di una dialettica tra i corpi intermedi, di un autonoma distinzione tra i vari poteri dello stato.
Quanto abbia inciso anche l’assenza di riserve valoriali, come quelli rappresentati altrove dall’antifascismo che in Jugoslavia, come in tutti i paesi comunisti, si era trasformato in una sorta di ideologia ufficiale di regime, retorica pubblica servita solo ad autolegittimare apparati oppressivi e invasivi che, una volta caduto il sistema, hanno poi prodotto per reazione, movimenti di segno politico contrario, e così quando il fascismo nazionalista riapparve sotto nuove spoglie, con il suo linguaggio, la violenza , le sue rivendicazioni territoriali e la guerra, le generazioni di allora, non trovarono niente nel proprio vissuto, nei valori condivisi, con cui confrontalo, riconoscerlo e contrastarlo (Rada Ivekovic, Autopsia dei Balcani).

Dopo la pace di Dayton e negli anni della ricostruzione, nella ricomposizione collettiva di un trauma così grave e lacerante, la giustizia internazionale e i processi all’Aja avrebbero potuto aiutare , ma sono arrivati troppo tardi e pieni di lacune e contraddizioni.
Hanno individuato le responsabilità di singoli, ma non i mandanti della genesi dell’odio e le responsabilità politiche complessive, lasciando la percezione diffusa di un risarcimento morale e di giustizia insoddisfatti
Il superamento dei traumi di crimini diffusi nel corpo sociale, di divisioni e guerre civili, di riconciliazione, hanno bisogno di tempo e di spazio per essere declinati. Sono opzioni che non si strutturano da sole, vanno sostenute politicamente, economicamente e socialmente e se non si ricreano nella struttura della società , l’ambiente e le precondizioni idonee alla ricostruzione della fiducia, i processi di dialogo rimangono esperienze testimoniali, di frontiera.

Nella ricomposizione avrebbe aiutato, il processo di inclusione europea. Invece per la Bosnia, come per la Serbia e il Kosovo, congelati in un eterno dopo guerra, il continuo rinvio dei tempi ed esami di preadesione, e il loro congelamento di fatto con la commissione Junker hanno provocato frustrazioni e risentimenti, anche se tutto ciò non ha certo impedito comunque a Bruxelles, senza ulteriori esami, di far svolgere a quei paesi il ruolo di guardiano e contenimento forzato dei flussi migratori sulla rotta balcanica.
Mancata integrazione che da un lato ha provocato un esodo della popolazioni, di forza lavoro attiva verso i paesi dell’Europa centrale e del nord e dell’altro alimentato una nuova narrazione ipernazionalista come compensazione regressiva e di proiezione identitaria, elemento forieri del possibile riaprirsi di nuovi conflitti tra le varie componenti etno-nazionali e tra i paesi dell’area.
Solo nel 2022, a fronte dei pericoli di un effetto dominio sull’area balcanica provocati dal conflitto in ucraina, e per contenere la storica influenza russa sulla regione, si è corsi velocemente ai ripari, riaprendo o accelerando i percorsi e l’inizio dei negoziati di adesione ma le prospettive e le tempistiche rimangono tutt’ora indefinite.

Oggi quel confine di Gorizia del 1991 non esiste più e la città insieme alla sua parte slovena Nova Gorica, sono state elette Capitali europee della cultura nel 2025. Un segno, un simbolo che occorrerebbe però sostanziare e diffondere nel corpo sociale delle nazioni, perché ben altri luoghi nei Balcani e Srebrenica stessa, vivono ancora un tempo dove le ferite appaiono ancora aperte, in un elaborazione del trauma che non si è compiuta.

Sono passati 30 anni, in una nazione che vive ancora tante fatiche, è cresciuta ed è diventata adulta una generazione che la guerra non l’ha conosciuta, come i ventenni di oggi. È a queste generazioni che bisogna pensare, ricordando quello che è stato ma offrendo una prospettiva e un futuro, prima che il morto afferri il vivo, come l’Angelo  dipinto da Klee di cui parlava Walter Benjamin: “con il viso rivolto al passato dove vede una sola catastrofe, che accumula, senza tregua,  rovine su rovine “.

Su questi temi, il lavoro della società civile, dei corpi intermedi sarebbe ampio, nell’obiettivo di aiutare a costruire gli anticorpi, forze ed energie da far crescere per impedire in futuro altre derive. La lotta contro la degradazione, la disumanizzazione della persona, il contrasto e il superamento delle relazioni violente, a partire da quelle che nascono nei nuclei primari della società, ma soprattutto il dovere per l’azione politica di creare meccanismi e strumenti che sappiano proteggere le comunità da aggressioni e crisi interne laceranti. Un impegno e una sfida ardua sapendo che i tempi che stiamo vivendo,  raccontano di una comunità degli uomini che sembra non aver imparato nulla dalle lezioni della storia , mentre ormai nessun luogo è lontano.

 

 

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi collaborare ?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.