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Srebrenica: le radici dell’odio
Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario del genocidio di Srebrenica. Genocidio, riconosciuto tale dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2007 e che poté compiersi anche grazie alla colpevole passività del contingente di caschi blu olandesi
In questi anni di guerre totali, di stragi e morti inique, la memoria non può non andare al genocidio di Srebrenica, di cui ricorre quest’anno il trentesimo anniversario, il più terrificante e osceno massacro delle guerra in Bosnia Erzegovina avvenuto nel luglio del 1995 e che verrà ricordato il 10 Giugno, in un convegno alla Triennale di Milano organizzato da Caritas Ambrosiana e IPSIA. Ottomila uomini, adulti e ragazzi , bosniaci musulmani, rastrellati, uccisi e gettati in fosse comuni, dalle milizie serbo-bosniache sotto il comando di Ratko Mladić e Radovan Karadžić, condannati all’ergastolo all’Aja, dopo una lunga latitanza in Serbia.
Genocidio, riconosciuto tale dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2007 e che poté compiersi anche grazie alla colpevole passività del contingente di caschi blu olandesi, il Dutchbat, poi processato in patria, che non garantì la sicurezza della cittadina bosniaca e la protezione dei civili, segnando il fallimento più tragico nella storia delle missioni di pace delle Nazioni Unite.
Srebrenica come simbolo della volontà di annientamento contro un intera comunità nazionale in una guerra che dissolse la Jugoslavia, iniziata quattro anni prima e che nessuno era stato capace di fermare. Quando nel giugno del 1991 gli abitanti di Gorizia e poi tutta Italia in televisione videro sull’altro lato del confine gli scontri tra l’esercito jugoslavo e le forze slovene si capì che il sogno di un Europa in pace fino agli Urali, nato con la caduta del Muro di Berlino, stava lasciando il posto ad un disordine violento e che degenerò nel Balcani, nella prima guerra in Europa dopo il 1945.
Il conflitto aperto e la separazioni tra le repubbliche della Federazione jugoslava era arrivato al culmine di una profonda crisi economica e politica del paese, di cui non si colsero allora le conseguenze geopolitiche e che metteva in luce la difficile transizione dei regimi comunisti dell’Europa orientale transizione che stavano avvenendo nel collasso statuale, imprevisto nel suo rapido evolversi, della stessa Unione Sovietica, nel vuoto di potere determinatosi che fece riemergere e riesplodere divisioni, scontri su linee di frattura politiche, religiose, identitarie e culturali.
Non vi è dubbio che lo sfaldamento delle varie componenti nazionali dall’Urss fornirono un esempio emulativo a quelle jugoslave, e la percezione, rivelatasi poi esatta, che Mosca non avrebbe avuto il potere e la forza di intervenire per una soluzione volta a mantenere l’integrità statuale e politica della federazione fondata da Tito nel 1945. Rapidamente nel giro di un anno, una sequenza di eventi destabilizzanti: l’indipendenza dei paesi baltici, quelle simultanee di Slovenia e Croazia, la guerra con Belgrado dove il nazionalismo del leader serbo Milosevic fu l’ oggettivo propulsore della deriva violenta, la prima guerra civile in Georgia e in altre zone del Caucaso, il fallito colpo di stato a Mosca e la definitiva crisi di legittimità politica dell’Unione Sovietica che si sciolse il 25 dicembre del 1991, mentre imperversava la guerra tra Serbia e Croazia e l’assedio della città di Vukovar.
Da lì a pochi mesi, il conflitto si sarebbe esteso in Bosnia Erzegovina, con l’assedio di Sarajevo, città simbolo del pluralismo nazionale, culturale e religioso, in una guerra destinata a durare fino al novembre del 1995. Una guerra assurta a conflitto paradigmatico nel quale emersero tratti e peculiarità che avremmo ritrovato in seguito altrove, tra i quali:
a) l’emergere dell’ideologia etno-nazionalista che fu motore e istigatore decisivo nel provocare i conflitti e rappresentò l’esito finale del processo di decadenza dei regimi comunisti e dei loro gruppi dirigenti e utilizzato scientemente da questi nel tentativo di ridarsi una legittimazione, dopo la fine dell’esperienza socialista, un etno-nazionalismo che si manifesterà in forme particolarmente virulente e violente nei Balcani e nelle ex repubbliche sovietiche del Caucaso dopo il 1989.
b) La ri-nazionalizzazione delle politiche estere degli stati. Liberi dal condizionamento della logica dei blocchi, molti paesi tornarono a declinare la politica estera in termini di interessi e sfere di influenze anche contrapposte, il che nella guerre jugoslave provocò approcci divergenti dei vari attori europei, Germania, Francia e Gran Bretagna, che resero difficile una risposta unitaria ed efficace, superati solo dall’intervento esterno degli USA dell’amministrazione Clinton.
c) Il fallimento politico delle Nazioni Unite. L’impotenza nel sanguinoso assedio di Sarajevo e l’ignavia dei caschi blu olandesi a Srebrenica, hanno segnato una frattura nella credibilità dell’ONU , la cui incapacità ad affrontare la guerra in Bosnia si era resa evidente sotto vari aspetti, dalle autorizzazioni all’uso della forza di difesa, al mandato dei caschi blu, all’autorità di negoziare tra le parti in conflitto, incapacità che sarà da quel momento il grave limite delle Nazioni Unite nella affrontare senza successo la prevenzione e la gestione di successive crisi internazionali.
d) Il ruolo dei sistema dei media ,come osservatori e come parti agenti nel conflitto
All’interno dove la propaganda pervasiva, dove propaganda e disinformazione sistematica da parte dei media nazionali , fortemente legati ai regimi e apparati politici , risultò determinante nella costruzione del Nemico e dell’odio etnico.
E all’estero, dove la copertura dei network internazionali amplificò la portata mediatica della guerra , favorendo l’intervento, tardivo , della comunità internazionale, ma generò anche distorsioni, un uso emozionale di cronache e immagini e corto circuiti comunicativi sfruttati dalla propaganda di guerra, dinamiche che avremmo visto ripetersi, potenziati, in successivi gravi conflitti.
La genesi della violenza
Negli anni , l’analisi si è concentrata sulle concause politiche, economiche, i nodi irrisolti, errori e limiti della diplomazia, Tuttavia per comprendere Srebrenica, forse occorre anche una chiave più profonda: interrogarsi sulla genesi e la natura della violenza agìta su quelle persone e comunità. Srebrenica fu episodio culmine parossistico, di una guerra brutale fatta di città e paesi assediati e distrutti rastrellamenti, vendette, stupri sistematici, deportazioni, eccidi e fucilazioni sommarie. Per anni ci si è interrogati su come sia stato possibile che i figli, gli eredi della Jugoslavia partigiana, della pedagogia del progresso socialista, leader dei paesi non allineati, si siano resi protagonisti di una simile tragedia, odio, violenza ed orrore.
Il modello di integrazione promosso da Tito , quella “fratellanza e unità” aveva retto , sempre più sclerotizzato, per un decennio dopo la sua morte. Ma scomparsa quella identificazione carismatica, l’ incapacità di gestire la crisi politico-economica del modello socialista e della Lega comunista Jugoslava , portò le varie repubbliche a ripiegare sull’identità dello singolo stato nazione di appartenenza: il “nostro popolo” prima degli altri, un etnia, una religione, un capo. Miti di rifondazione pseudo storica, presunte grandezze perdute e umiliazioni da vendicare. E quando , per affermare la propria, si nega ad altri la storia, l’identità e i diritti, la violenza diventa ineluttabile.
Si capì allora che quando una comunità muore e si rompono i legami sociali, la rottura rischia di propagarsi come un epidemia virale, ai legami individuali e intra-soggettivi, retrocedendo a meccanismi di identificazione primaria, a logiche identitarie regressive. E il vicino, il compagno di scuola, l’amico, diverso per cultura, religione, tradizioni, esperienze, quella persona può così diventare progressivamente ” l’altro” e “l’estraneo”.
Uno slittamento prima semantico, di linguaggio d’odio e poi fattuale, fino a trasformarsi nel capro espiatorio della comunità, fino a diventare “semplicemente “ il nemico da uccidere.
Il paese venne pervaso da elaborazioni paranoiche , pulsioni di morte, odi paure e impulsi violenti proiettate sul “nemico” esterno, che si potenziarono a vicenda, cementando identità di gruppo omicide, psicosi persecutorie che travolsero individui e intere comunità inermi.
L’etno-nazionalismo con la sua cultura maschilista, l’esaltazione di un patriarcato antico , la rifondazione mitologica della patria, il culto della morte, la guerra sacrificale, fu inoltre profondamente femminicida. Le donne, riconosciute nella retorica nazionalista solo nel ruolo di madri e vedove dei caduti al fronte o altrimenti oggetto degradato dello stupro come arma di guerra. Non a caso il movimento delle Donne in Nero , divenne una delle forme più forti e visibili di resistenza alla guerra e ai regimi nazionalisti, soprattutto a Belgrado.
C’è da chiedersi , nell’incapacità di reggere l’urto violento del nazionalismo e di gruppi criminali che conquistarono il potere, quanto abbia pesato in Jugoslavia la sua peculiarità di federazione di realtà multietniche e nazionali a partito unico , senza una reale o debole cultura democratica , di luoghi consolidati di mediazione dei conflitti , di una dialettica tra i vari poteri dello stato che potessero consentire un processo di transizione verso una democrazia compiuta
Quanto incise anche lo svuotamento di valori civili e condivisi , come l’antifascismo , che in Jugoslavia, come in tutti i paesi comunisti, si era trasformato in una sorta di ideologia ufficiale di regime, strumento di autolegittimazione del potere autoritario del “Partito” che, una volta caduto il sistema, hanno poi prodotto per reazione, movimenti di segno politico contrario, e così quando un nazionalismo aggressivo neofascista riapparve con le sue parole d’odio ,di violenza , di rivendicazioni territoriali , non vi era più un vissuto con cui confrontalo, anticorpi sufficienti in grado di riconoscerlo e contrastarlo ; “un totalitarismo organizzato sulle rovine di un precedente totalitarismo” così lo definì Muhidin Hamamdzic, Sindaco di Sarajevo
Dopo la pace di Dayton e negli anni della ricostruzione, la giustizia internazionale – con i processi all’Aja – arrivò troppo tardi e piena di lacune e contraddizioni.
Individuò qualche responsabile degli eccidi più efferati ma non sempre i mandanti e le responsabilità politiche , lasciando un risarcimento morale e di giustizia incompiuti
Il superamento dei traumi di una società lacerata, richiede tempo , spazio e strumenti. Se non lo si sostiene politicamente e non si ricreano condizioni economico sociali adeguate, i processi di riconciliazione rimangono esperienze testimoniali, di frontiera.
Nella ricomposizione avrebbe aiutato, il processo di inclusione europea. Invece per la Bosnia, come per la Serbia e il Kosovo, il continuo rinvio dei tempi ed esami di preadesione, e il loro congelamento di fatto con la commissione Junker hanno provocato frustrazioni e risentimenti, anche se ciò non ha certo impedito comunque a Bruxelles, nel frattempo di delegare a quei paesi il ruolo di guardiani dei flussi migratori sulla rotta balcanica.
Ne sono derivati un esodo della popolazioni, di lavoratori verso i paesi dell’Europa centro-settentrionale e dell’altro una nuova narrazione ipernazionalista come compensazione regressiva e di proiezione identitaria, forieri del possibile riaprirsi di nuovi conflitti tra le varie componenti etno-nazionali e tra i paesi dell’area.
Solo nel 2022, a fronte dei pericoli di un effetto dominio sull’area balcanica provocati dal conflitto in ucraina, e per contenere la storica influenza russa sulla regione, si è corsi velocemente ai ripari, riaprendo o accelerando i percorsi e l’inizio dei negoziati di adesione ma le prospettive e le tempistiche rimangono tutt’ora indefinite.
Oggi quel confine di Gorizia del 1991 non esiste più e insieme a Nova Gorica, sono state elette Capitali europee della cultura del 2025. Un segnale importante che però andrebbe coltivato nel corpo sociale delle nazioni, perché ancora in troppi luoghi nei Balcani – Srebrenica stessa- le ferite restano aperte, un trauma non ancora elaborato.
Sono passati 30 anni, in una nazione che vive ancora tante fatiche, crescono generazioni che la guerra non l’hanno vissuta. È a queste generazioni che bisogna pensare; ricordare è doveroso e necessario , ma serve una prospettiva e un futuro, affinché il morto non afferri il vivo, come l’Angelo dipinto da Klee di cui scriveva Walter Benjamin: “con il viso rivolto al passato ” sul cumulo di rovine della storia.
Su questi temi, il lavoro della società civile, dei corpi intermedi è oggi più che mai centrale: nel far crescere anticorpi, forze ed energie per impedire in futuro altre derive. La lotta contro la disumanizzazione della persona, la promozione di relazioni non-violente, ma soprattutto il dovere per l’azione politica di creare meccanismi e strumenti che sappiano proteggere le comunità da aggressioni e crisi interne laceranti. Un impegno e una sfida ardua, sapendo che i tempi che stiamo vivendo, raccontano di una comunità degli uomini che sembra non aver imparato nulla dalla storia , mentre ormai nessun luogo è lontano.
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