Autobiografia come esperienza di sé e dell’altro

Filosofia

Autobiografia come esperienza di sé e dell’altro

Un’indagine sulla scrittura autobiografica com’è andata definendosi nei millenni della cultura occidentale

10 Giugno 2025

Roberto Celada Ballanti, Professore ordinario di Filosofia all’Università di Genova, ha pubblicato presso Mimesis il saggio Memoria, Autobiografia, Alterità nella collana diretta da Duccio Demetrio e Stefano Raimondi Quaderni di Anghiari, che raccoglie strumenti per la formazione, sia in campo autobiografico che biografico. Il testo risulta infatti dalla rielaborazione di una conferenza tenuta il 29 settembre 2023 al 25° Festival dell’Autobiografia organizzato dalla Libera Università di Anghiari. Con il sottotitolo Dalla sapienza delle Muse all’infinito nulla dell’uomo contemporaneo, il libro indaga in undici densi capitoli (corredati da un ricco apparato di note) in che modo il racconto autobiografico che recupera la memoria personale e collettiva abbia saputo e sappia intrecciare le linee di passato-presente-futuro, sprofondando nel tempo delle origini e risalendo all’oggi. Già gli autori delle epigrafi introduttive al volume (Platone, Goethe, Blanchot, Pessoa) indicano quanto Celada Ballanti spazi nella sua ricerca dall’antichità al mondo attuale, dalla filosofia alla letteratura, prendendo in esame anche il mito, i testi religiosi e la storiografia classica.

 

Memoria, autobiografia, alterità. Dalla sapienza delle Muse all'infinito nulla dell'uomo contemporaneo - Roberto Celada Ballanti - copertina

 

 

Memoria, autobiografia e alterità si intrecciano indissolubilmente nel percorso storico e teoretico offerto dall’autore: perché autos-bios-graphein, scrivere della propria vita, è anche scrivere dell’heteron – dell’altro –, che comunque interviene a incidere in ogni esistenza, modulandola, arricchendola, solcandola di “intermittenze, fratture, strappi, pieghe, interstizi di tenebra”. Siamo fatti del linguaggio che abbiamo ricevuto, della cultura ereditata, e delle esperienze man mano vissute: l’apporto del fuori da noi è innegabile, auto-biografia è in fondo sempre etero-biografia. A partire da questo assunto, Celada Ballanti ricompone le tracce della memoria culturale che ci ha forgiato, nel rapporto con il divino dell’universo greco ed ebraico-cristiano, con l’interiorità personale del primo cattolicesimo, con gli avvenimenti storici antichi e contemporanei, con la problematica relazionalità affettiva dell’oggi, nella volontà di dare “senso al non-senso della nostra opacità originaria, per trasformare il caos in cosmo”.

Le Muse, figlie di Mnemosyne dea della memoria, sono divinità della voce, del racconto e del mythos, che secondo Esiodo narra “ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu”, il tempo eterno delle origini: la comparsa delle Muse significa quindi la nascita della parola, del sogno, del ricordo, del canto, al di là delle barriere temporali. Il legame tra divino e umano viene espresso attraverso di loro nella poesia, mediatrice tra cielo e terra, rivelazione del mistero e rapporto con l’alterità. Da qui, dal canto delle Muse è iniziato un sapere dell’altro che si è prolungato nella scrittura, nella filosofia e nella teologia, propiziando l’avvento dell’autobiografia come conoscenza di sé. Un’esplorazione che tuttavia non è mai limpida e lineare, ma include spazi di oscurità, di non detto e non dicibile, di silenzio e di segreto impronunciabile. Solo la parola poetica è in grado di schiudere la notte e illuminarla, senza imporsi, sottraendosi al senso nella propria chiara innocenza, come suggerisce Celan: “La poésie ne s’impose plus, elle s’expose”. La parola del poeta ispirata dalle Muse è parola originaria che riporta all’essenza del dire, smarrito nei linguaggi quotidiani, futili e ridondanti: nella sua natura magico-religiosa la poesia svela il mistero dell’indecifrabile, facendolo accadere. Per questo il canto delle Muse inquieta, perché richiama a un’essenzialità che rivela l’assenza di significato del parlare consueto, abusato. L’evocazione dell’origine divina e misteriosa della parola, con il richiamo a un’alterità indistruttibile, rimane intatta anche nella scrittura autobiografica, quando un autore scandagliando incontra l’altro, quando sollecitando un ricordo schiude l’abisso del suo “continente interiore”, e ne svela il segreto.

Al canto delle Muse, trasmesso oralmente, è conseguito con uguale desiderio di sconfinamento il sapere dei filosofi greci, comunicato utilizzando la scrittura alfabetica: ricerca della verità, spiegazione razionale di ciò che nel mito veniva esperito emotivamente, poeticamente. Mito e filosofia sono i primi due cardini su cui si radica l’esperienza comunicativa dell’autobiografia. Il terzo fondamento che occorre citare sono i testi sacri. Troviamo in Abramo, visitato dalla voce di Dio, e nella protesta sofferente di Giobbe, l’antecedente biblico delle Confessioni di Agostino: confessione come uscita da sé e dalla propria ferita (“domanda, grido, lamento, invocazione”), e rivelazione dell’altro. Con le Confessioni agostiniane nasce la scrittura autobiografica che conosciamo, siglata anche da Montaigne e Rousseau, in cui il soggetto che racconta fa del suo io una singolarità storica, vicenda inserita nel divenire temporale. Pur conservando tracce del pensiero pagano e cristiano antecedente, qui la novità assoluta consiste nella saldatura attuata tra universale e singolare nella parola confessante, che assume dignità filosofica e teologica perché redenta dall’incarnazione di Cristo, trasformante l’orizzontalità della situazione umana nella verticalità del rapporto con Dio. Agostino confessa a Dio ciò che Dio sa già da sempre di lui, testimoniando l’evento della grazia e l’impossibilità della padronanza di sé, in una pratica di spoliazione che lo invera e ricapitola in una verità più grande, poiché è Dio che lo agisce e conosce nella sua interiorità più intima (“interior intimo meo et superior summo meo”). Così il soggetto agostiniano si identifica solo perdendosi in un’apertura infinita di sé, destrutturandosi e svuotandosi, arrendendosi a un’alterità che lo eccede e a cui si consegna nella sua povertà e “indecenza” di singolo, però salvata dall’intervento divino.

Sarà Montaigne nei suoi Saggi a scrivere la prima autobiografia secolarizzata della modernità, in cui il Dio cristiano evapora dall’orizzonte umano, permettendo all’uomo di circoscrivere il suo spazio come esperienza, mentre crolla la dipendenza da modelli e autorità costituite e si apre la strada alle rivoluzionarie teorie scientifiche di Cartesio, Galileo, Newton. La denuncia delle guerre di religione, delle crudeltà compiute in nome della fede in cui non c’è alcuna traccia di divinità, fa crollare ogni credenza nelle metafisiche, ontologie e teologie del passato, sostituite dal dubbio radicale nel guidare la ragione. In conseguenza di ciò, si universalizza l’idea del singolare, del ritorno dell’uomo in se stesso, fuori dalla scena del sacro: “Ogni uomo porta la forma intera dell’umana condizione”.

Anche Rousseau ribadisce nelle sue Confessioni la consapevolezza della propria unicità di individuo, deciso a emanciparsi dai pregiudizi sociali che lo soffocano in un’autodifesa polemica e indignata contro le contraddizioni e la sopraffazione delle istituzioni. La sua autobiografia diventa un atto relazionale in cui l’altro è chiamato come semplice testimone: espropriato della propria verità interiore, Rousseau esplora l’abisso della sua anima, relegando al rango di spettatori e non più interlocutori gli altri e Dio stesso. La sua esperienza diretta della degradazione umana e delle contraddizioni sociali lo rende accusatore impietoso dell’ingiustizia umana, proprio attraverso la ricostruzione autobiografica, ripresa ossessivamente anche in opere posteriori nel cui inestricabile labirinto finirà per smarrirsi.

Roberto Celada Bellanti conclude la sua disamina della scrittura di sé affrontando la Lettera al padre di Franz Kafka. Si tratta di una lettera mai inviata a un padre “spettrale”, come quello di Amleto, un padre assente che non può ricevere la confessione né può perdonare. L’asimmetria all’interno del colloquio è totale: il figlio si autoaccusa dando voce al padre, facendosi parlare dal padre; è sopraffatto, invaso, svuotato da lui: “Nei miei scritti parlavo di Te, sfogavo sulla carta quello che non potevo sfogare sul Tuo petto”. La figura paterna si trasfigura nel Tribunale del Processo e nella Legge del Castello. Anche la lettera al padre, dunque, è una scrittura dell’altro: autobiografia come etero-biografia. Scrive Celada Ballanti: “L’ingombro paterno è totale. Ma la fuoriuscita da sé, l’estasi, qui, non è verso il canto delle Muse o il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, e poi il Dio cristiano, non è la grazia di Agostino, e neppure sono gli altri contro cui si scaglia l’indignazione di Rousseau, ma è verso il Nulla. È un’estasi, quella kafkiana, del Nulla”. È lo stesso nihil che domina il nichilismo contemporaneo, il niente di senso e di valore della creatura di fronte alla trascendenza senza volto e senza nome che la domina e la schiaccia. Tuttavia Kafka riesce a trasfigurare il niente di sé attraverso la scrittura letteraria, percorrendo un cammino di ricerca verso un altrove che non è da nessuna parte. Sarà appunto l’esigenza di scrivere a diventare autonoma rispetto alla soggettività personale, nel suo essere altro dalla biografia.

La scrittura autobiografica è quindi parola naufragante, racconto dell’incontro impossibile con l’io, fantasma, spettro inconoscibile che faceva dire a Goethe nel Faust: “Definisci te stesso, è già un enigma”. Si scrive per questo, alla fine: per trasfigurare e trasfigurarsi.

 

 

ROBERTO CELADA BALLANTI – MEMORIA, AUTOBIOGRAFIA, ALTERITÀ

Dalla sapienza delle Muse all’infinito nulla dell’uomo contemporaneo

MIMESIS, MILANO 2024, pagine 120

 

 

 

 

 

 

 

 

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