Chistu Nun è nu rumanzu, di Lanfranco Caminiti, riporta al centro del dibattito un'epopea misconosciuta, quella dei Fasci Siciliani

Letteratura

La storia negata: Caminiti e la voce perduta dei Fasci Siciliani

9 Luglio 2025

Un libro di Lanfranco Caminiti celebra un’epopea misconosciuta dalla storia ufficiale nazionale, quella dei Fasci Siciliani, e lo fa per mezzo dei documenti d’epoca.

Ci sono storie ed eventi del nostro paese che restano da tempo sotto traccia, perlopiù ignorati dalla narrativa e dalla cultura istituzionale, abbandonati a sé stessi, senza una voce che ne tramandi il ricordo. A colmare, almeno in parte, una di queste “amnesie” relegate esclusivamente agli storici di professione, è uscito da poco un libro originale, nella fattura e nell’intenzione.

Lanfranco Caminiti compie un’operazione radicale in Chistu Nun è nu rumanzu (il titolo in siciliano non è un vezzo compiacente all’uso “camilleriano”, ma un vero e proprio manifesto d’intenti), restituendo voce alla più vasta insurrezione contadina d’Europa dopo la Comune di Parigi: i Fasci Siciliani (1892-1894). E lo fa innanzitutto nella forma, perché rifiuta il modello dominante di racconto contemporaneo di queste vicende, soprattutto siciliane, le saghe familiari e la fiction tradizionale; perché la forma romanzo – con la sua linearità narrativa, la psicologia individuale, l’eroizzazione – tradirebbe la natura corale e frammentata dell’insurrezione.

L’uso del dialetto nel titolo è un atto sovversivo. Il siciliano, lingua considerata “subalterna”, diventa qui lingua della rivolta, contrapposta all’italiano del potere. Caminiti non scrive l’intero libro in siciliano (sarebbe una mistificazione), ma lo evoca come “soglia” tra passato e presente. È un omaggio ai contadini di Corleone e Piana degli Albanesi, la cui voce fu censurata nei processi. Attraverso un montaggio di documenti (statuti dei Fasci, verbali di polizia, atti processuali, poesie popolari come quella di G.G. Calogero), l’autore restituisce la storia alla cronaca, senza mediazioni accademiche, e ci regala il piacere di consultare le fonti originali. Siamo immersi nelle cronache del tempo, costretti ad un linguaggio che, per stile e sintassi, non ci appartiene, eppure spinti a scorrere con frenesia i racconti dei contemporanei e i verbali delle forze dell’ordine o gli atti giudiziari che compongono il mosaico della vicenda.

Proprio questa scelta anti-narrativa solleva un paradosso e ci spinge ad una riflessione: se la storia dei Fasci merita di sfuggire all’esclusivo servizio degli storici di professione, è anche vero che manca ancora una trasposizione nella cultura popolare. Servirebbero opere di fiction – serie TV, film, romanzi – per rendere accessibile questa epopea alle “masse”. E non costringerci alla visione dell’ennesima stantia versione de Il Gattopardo, ad esempio.

La storia, brevemente raccontata, è quella di trecentomila lavoratori siciliani, donne, minatori e braccianti che insorsero contro lo Stato liberale, il latifondo e la mafia, ma che la stessa sinistra istituzionale dell’epoca bollò come “primitivi” e “immaturi”. Per esempio, Antonio Labriola e Friedrich Engels – interpellato da Anna Kuliscioff – li giudicarono privi di coscienza di classe, mentre il Partito Socialista li relegò ai margini come fenomeno folcloristico.

Caminiti smonta questa narrazione tossica (che si è propagata nel tempo, favorendo l’occultamento della vicenda nei decenni successivi): la repressione non fu solo militare (con il siciliano Francesco Crispi a ordinare stragi e repressione giudiziaria), ma anche culturale. L’ “egemonia culturale” socialista rifiutò (per paura di rimanere invischiata in qualcosa che non sarebbe stata in grado di controllare) di riconoscere la loro organizzazione solidale, le strutture di mutuo soccorso e il protagonismo femminile come forme legittime di lotta.

Conoscendo la storia personale e di saggista di Caminiti, il parallelo con il movimento del 1977 è bruciante e deliberato. Già curatore de Gli autonomi (DeriveApprodi 2007), Caminiti riconosce in entrambi i fenomeni due “stati nascenti” (per citare il sempiterno Alberoni) di una nuova classe lavoratrice. I Fasci con le loro leghe contadine e gli autonomi con le assemblee di fabbrica sfidarono l’egemonia dei partiti (il PSI nel 1894, il PCI nel 1977).

La risposta fu identica: emarginazione politica e criminalizzazione. Quel doppio tradimento della sinistra istituzionale rivela una continuità nella repressione del dissenso interno che attraversa il nostro paese sin quasi dall’unità d’Italia. Di più, l’incapacità di riconoscere la forza rivoluzionaria insita nella rivolta di popolo non guidata da leadership riconosciute. Una vera e propria paura delle conseguenze che spinge anche i partiti nominalmente rivoluzionari a fare proprio il detto siciliano “Megghiu u tintu canusciutu ca u bonu a canusciri” (È meglio un cattivo conosciuto piuttosto che un buono sconosciuto).

I Fasci Siciliani – con le loro forme di mutualismo e organizzazione dal basso – appaiono oggi un laboratorio politico dimenticato. La loro rimozione dalla storia del nostro paese (come quella del ’77) non è un incidente storiografico, ma il sintomo di una frattura irrisolta, innanzitutto nella sinistra, tra istituzioni e movimenti. Questo libro, necessario, è più di un saggio: è un invito ad ascoltare le voci sommerse che emergono dagli archivi e a trasformarle in coscienza collettiva. Peccato solo che, come nota amaramente l’autore, per raccontare quell’epica servirebbe un poeta, e la poesia – oggi – è in esilio.

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