Storia
In solitudine. Intorno a Albert Camus e Nicola Chiaromonte
«Non si mostra la propria grandezza stando a una estremità, ma toccando insieme le due estremità e riempiendone lo spazio intermedio».
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È il distico con cui Albert Camus presenta le sue Lettres a un ami allemand.
La citazione è dai Pensieri di Pascal [per la precisione la parte intermedia del pensiero n. 353, nella numerazione Brunschvicg]. Il riferimento tuttavia diviene comprensibile se si leggono le parole di esordio dello stesso frammento: «Non ammiro – scrive Pascal – l’eccesso di una virtù, per esempio l’eroismo. Se non vedo nel medesimo tempo l’eccesso della virtù opposta».
Forse qui sta un dei punti essenziali della amicizia di Camus con Nicola Chiaromonte (1905-1972), nata sulla via dell’esilio, nel 1941 quando Chiaromonte è in fuga dalla Francia verso gli Stati Uniti e passa per Orano dove avviene il primo incontro con Albert Camus.
Di Nicola Chiaromonte, intellettuale radicale di cui in Italia sono rimaste le tracce perché caparbiamente ricordate dai suoi amici e che invece sarebbe bene riprendere in mano, la pubblicazione del suo carteggio con Camus ci consente ora, forse di riprendere le fila di quell’amicizia, restano alcune tracce, segnate, soprattutto, dalla presenza di Camus in alcune delle iniziative editoriali e di riflessione dirette da Chiaromonte. Per esempio la rivista americana «Politics» tra 1945 e 1948, o «Tempo presente» il mensile che fonda nel 1956 insieme a Ignazio Silone e che poi chiude nel 1968 [leggibile in tutti i suoi contenuti qui], quando viene a sapere che è finanziariamente dipendente dalla CIA.
Quella decisione, è importante sottolinearlo, non la prende perché “antiamericano”, ma perché crede nell’autonomia dell’esercizio della funzione intellettuale. Oggi si direbbe in conseguenza di prendere sul serio il rigore di principio ai fondamenti della libertà di pensiero.
È di quella libertà di pensiero – meglio: dei tormenti derivati e discendenti dall’adozione di quel principio – che è saturo il suo carteggio con Camus in cui sono presenti con lo stesso rigore o con lo stesso tormento, le vicende pubbliche e quelle private, il senso di smarrimento e la dimensione pubblica dell’impegno, parola “grave”, ma anche, per entrambi, carica di molti non detti, e di molte ipocrisie.
Dove stanno quelle ipocrisie? Essenzialmente nella costruzione della immagine della coerenza come adesione a un principio. Esattamente ciò che Camus riprende in una delle sue prime lettere a Nicola Chiaromonte.
È il 20 gennaio 1946 è la lettera n. 8 di questo carteggio che ne presenta 91, Camus illustra a Chiaramonte come possa essere scandaloso pensare, anche in conseguenza di non dare per acquisito un risultato, ma nel ripensarlo. Il riferimento è alle sue Lettres à un ami Allemand, scritte tra il luglio 1943 e il luglio 1944 (Gallimard le pubblica nel 1945, in Italia escono nel 1961 poi, più recentemente nel 2009, ma rimanendo sempre un testo minore).
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Quelle lettere come ha scritto una volta Alessandro Leogrande non sono solo quindi un concentrato del pensiero di Camus in quegli anni, bensì sono allo stesso tempo un concentrato di quel pensiero in relazione alla lotta clandestina, alla riflessione sulla moralità (quale morale?) della Resistenza, e in relazione al rapporto con la Germania (e il pensiero tedesco) che, per la sua complessità, trascende l’immediatezza della lotta di liberazione.
Soprattutto, sottolinea Camus, è nella quarta e ultima lettera che sta il senso di ciò che rimane dopo e del punto su cui confrontarsi, laddove la distanza è irriducibile, senza, peraltro, trasformarsi in orgoglio nazionalistico.
“Detesto l’odio – scrive Camus – Per le persone come me, che sono state costrette a battersi, questi cinque anni sono stati quelli della coscienza, con le sue contraddizioni. Ho cercato di ridurre una di queste contraddizioni, ecco tutto. Ma oggi, e per le stesse ragioni, parlerei in modo diverso della Germania”. [p. 44]
Lo stesso per certi aspetti vale per questo carteggio, composto nel tempo della solitudine dei due interlocutori e che forse proprio in quella condizione prima ancora che nella precarietà o nella debolezza, trova la sua forza.
È una solitudine, quella che da cui provano a uscire Camus e Chiaromonte, senza addivenire a compromessi, (una dimensione “adolescente” la denomina Chiaromonte nella lettera del 21 febbraio 1954) e che si acuisce con la progressiva dimensione ideologica della categoria di impegno.
Una prima volta emersa già nel 1945 con la crisi del periodico “Combat” che Camus dirige e che lascia; che si ripresenta nel 1951 con la discussione intorno al suo Uomo in rivolta, l’opera che sancisce la rottura definitiva con Jean Paul Sartre, e che Chiaromonte accoglie come l’apertura di una percorso volto a dare possibilità di spazio pubblico a quelle voci a lungo rimaste marginali nel pensiero contemporaneo (il primo a cui Chiaromonte pensa è Andrea Caffi che scompare nel 1955, e che non ha mai goduto di simpatie; infine con la discussione, che a entrambi sembra effimera, intorno alla retorica del Rapporto Khruscev sullo stalinismo (non a caso Chiaromonte affiderà a Aldo Garosci, l’intervento di riflessione nel numero d luglio 1956 di “Tempo presente” che ha per titolo il silenzio degli intellettuali).
Ma anche sulla svolta e sulle inquietudini della società francese tra guerra d’Algeria e Quinta Repubblica e in cui si riaffaccia tanto il tema della tortura, come quello della violenza sui civili, che coinvolge gli apparati di polizia e l’esercito francese, ma non lascia privo di responsabilità neppure il fronte della guerriglia e dell’indipendentismo algerino.
Un tema che ha un interlocutore già allora, nel 1957, nella scrittura pubblica e nella controinchiesta intorno all’Affaire Audin (una storia che anticipa di un decennio ciò che in Italia conosceremo con la vicenda Pinelli) nella persona di Pierre Vidal-Naquet e che tornerà a percorrere quei nodi non sciolti, né allora, né dopo. Questione non solo di silenzi o di narrazione falsa, ma soprattutto che implica scavare su quello che debba essere il mestiere pubblico dell’intellettuale, nel suo caso il mestiere di storico, come precisa fino alla vigilia della sua morte (luglio 2006).
In solitudine.
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