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Teatro

Il lato oscuro di “Questa cosa chiamata amore”

di Titti Ferrante
5 Marzo 2020

“Ho invitato cinquecento persone e mi sono fatto 15 mila nemici”
(T. Capote)

Un telone bianco sullo sfondo della scena, le pagine che Truman Capote riempie già a 8 anni, essendo stato molte precoce nell’arte di scrivere. Una scena fatta di soli oggetti:il tavolo, le sedie, e giochi di luce.
Quella di “Questa cosa chiamata amore”, è la messa a nudo di un‘esistenza sopra le righe, è la rappresentazione di un monologo in cui gli unici interlocutori sono immaginati, quelli che hanno riempito la vita dello scrittore accompagnandolo negli eventi mondani che spesso lo hanno visto protagonista. È il Capote dandy e più irriverente quello che massimo Sgambati disegna per Gianluca Ferrato.
La scena apre con l’immagine di Capote in mutande e canottiera, anticipo simbolico della confessione di un uomo che ammette di aver fatto uso di alcool e di essersi compiaciuto della sua omosessualità. Irride il bigottismo di un‘America che dietro la maschera della tolleranza indossata durante feste e su copertine di riviste, è pronta a puntare il dito e a voltare le spalle. Poco dopo, mentre si dipana il racconto della propria vita, è una vestaglia a coprire le sue nudità e col procedere della narrazione, alla sovrastruttura della società con il suo miscuglio di credenze, fede, valori, corrisponde un abbigliamento sempre più ricco nella varietà e quantità di stoffa adoperata. Col suo stile decadente e ironico, si fa riferimento all’immancabile foulard di Jackie Kennedy derisa per il suo pessimo gusto. Gucci è una delle marche presenti in scena dove, a momenti di ilarità e di leggerezza si alternano profonde riflessioni sul lato oscuro della società americana di cui la solitudine è uno dei tanti risvolti.
A tale proposito, viene citato un racconto di Edgar Allan Poe in cui un anziano sente provenire rumori dall’esterno per accorgersi, poi, che si tratta del rumore del proprio cuore, un battito che rivela non tanto la paura che fuori ci sia una minaccia impellente quanto la speranza che qualcuno possa entrare dentro a fargli compagnia.
Dietro quest’apparente facciata di nazione libera, felice, spensierata, si cela il costante pericolo rappresentato dall’uso delle armi, di bombe, di naplam, simboli del fallimento del sogno americano che incombe dietro l’angolo. Citando “A Sangue Freddo”, romanzo verità in cui si narra dell’omicidio di una famiglia contadina del Kansas, Capote fa notare a uno degli assassini, Perry Smith, che sarà l’efferato atto che ha compiuto ad essere ricordato più che la famiglia vittima di quella tragedia, sarà il gesto di aver posto un cuscino sotto il capo del bambino ammazzato, a rimanere impresso nella memoria più del fatto di aver martoriato quel capo.
L’incomunicabilità è il tema dominante dell’intera rappresentazione: le parole creano fraintendimenti, equivoci. Le immagini, poi, sono soprattutto visione di morte sia quando ritraggono un militare che punta un fucile ad un Vietcong, sia quando mostrano John e Bob Kennedy ritratti dopo che la furia assassina si è abbattuta su di loro. Successivamente, il dissacrante Capote rivolgendosi al fantasma di Marilyn, le farà notare che le lacrime che ha versato per quelle morti sono state contraccambiate con versamenti di tutt’altra natura.
Lo scrittore smaschera il mito dell’ascesa sociale, dell’integrazione, si sente sempre l’outcast, il diverso, sensazione dovuta al suo background familiare in cui oltre a subire la separazione dei genitori, è stato abbandonato dalla madre. Un’infanzia difficile che lo accomuna a Perry Smith, figlio di una storia personale disastrosa, costellata di abusi subiti in famiglia e negli istituti ai quali fu affidato dopo la morte della madre. Perry è quello che Truman sarebbe diventato se non avesse intrapreso una vita diversa, uscendo dalla sua triste infanzia dalla porta principale piuttosto che da quella sul retro.
Più che elemento decorativo, il tavolo è un arredo di scena essenziale. Da letto su cui Truman giace all’inizio del dramma, diviene porta dietro cui la madre era solita nascondere i suoi amanti; è rappresentazione della madre stessa quando, ribaltandone la posizione, la ridurrà a semplice mammifero in grado di procreare.
“Nasciamo già all’interno dell’idea di essere stati generati”, asserisce lo scrittore, secondo cui l’atto di autoprocurarsi piacere è la metafora della suzione dal seno materno.
Quella mancanza di affetto, il senso di solitudine che lo accompagna tutta la vita, è celata da quella maschera che quasi inconsciamente è costretto a indossare. Il famoso “Ballo in Bianco e Nero” al Plaza Hotel con cui Capote festeggia l’ultima puntata del romanzo, è l’unico momento in scena in cui indossa scarpe, quelle da tip tap che per loro natura conferiscono stabilità di movimento durante l’esecuzione di salti e piroette e al tempo stesso coprono con il loro rumore l’emarginazione dell’essere umano.
Quel ballo, evento icona, è riportato in prima pagina da tutti i giornali, accanto a notizie di cronaca mondiale tra cui il summit Usa-Urss. Il bianco e nero è il simbolo di quanto fragile e superficiale sia il mondo dell’essere umano che lega il pettegolezzo, la vacuità, a scelte politiche che possono cambiare il destino degli esseri umani.
Con un linguaggio sapientemente irriverente, questa rappresentazione ci mostra un Capote che, al pari di Afrodite Cnidia, viene rappresentato nella sua nudità, in atteggiamenti intimi e personali; una nudità che non è seduzione, che si oppone allo sguardo malizioso e induce ciascuno a una seria riflessione sui valori esibiti e quelli profondamente condivisi.

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