Teatro

La sapienza di Edipo

Intervista al regista canadese Robert Carsen sul suo “Edipo a Colono” di Sofocle, in scena nel Teatro Greco di Siracusa.

4 Maggio 2025

Siracusa. Nella messinscena dell’Edipo Re del 2022, il regista canadese Robert Carsen ha restituito alla tradizione delle rappresentazioni classiche siracusane il dono di una consapevolezza che si era un po’ smarrita: la consapevolezza della meravigliosa potenza del testo sofocleo colto quasi con un attonito stupore e con una semplicità ineffabile e quasi materica. Uno spettacolo straordinario da porre accanto a veramente pochissimi altri. È dunque apparso giusto e quasi naturale che l’Istituto nazionale del dramma antico gli abbia chiesto di proseguire quella ricerca (una ricerca di senso e di sapienza, prima che una ricerca formale) e gli abbia commissionato per l’ormai incipiente stagione l’Edipo a Colono sempre di Sofocle. Un dramma sacro più che una vera e propria tragedia, un mistero, l’ultimo testo della produzione sofoclea. Ne abbiamo discusso con Carsen, riuscendo a parlagli proprio nel pieno della fase di costruzione concreta e di definizione dello spettacolo che andrà in scena, a giorni alterni, dal 10 maggio al 28 giugno 2025, nel contesto della LX Edizione delle Rappresentazioni classiche siracusane.

Il suo Edipo Re di tre anni fa ha colto un grande successo, sia da parte del pubblico sia dalla critica, quello che sta costruendo oggi in che rapporto sta con quel lavoro?

«Non c’è, non può esserci un rapporto diretto. Sono tragedie che Sofocle ha concepito con molti anni di distanza e presentano Edipo in situazioni estremamente diverse. Adesso Edipo sta cercando di fronteggiare la seconda parte della profezia che lo riguardava, ovvero che avrebbe finito la sua vita (alle sue angosce, ai suoi tormenti) in un posto sacro, non lontano da Atene dove abitano le Eumenidi».

Esiste una sapienza di Edipo? E su quale principio si fonda?

«Dopo tanti anni di vagabondaggio, Edipo capisce finalmente che di tutto quello che ha vissuto la colpa non è sua. Non sapeva che era suo padre Laio l’uomo che lo provocava e attaccava e non sapeva che stava sposando sua madre Giocasta, anzi la città di Tebe lo ringrazia e lo incorona per aver sconfitto la Sfinge. Egli non aveva voluto tutto questo. Adesso il problema per lui, ma sostanzialmente anche per il pubblico, non è cambiare il passato o non accettarlo, ma è far cambiare segno al passato, farlo diventare qualcosa di positivo per il nostro presente. Edipo va in pace verso la sua morte, avendo accettato ciò che gli era accaduto: una pace sostanziale anche se non esclude una certa dose di umano risentimento verso chi provava ancora a strumentalizzarlo. Inoltre il tutto avviene in un luogo sacro e separato in cui nessuno dovrebbe, nemmeno Edipo, arrivare e stare ed è avvolto in una aura di misteriosa sacralità».

Da chi è composto il coro in questa tragedia?

«Il coro è qui composti dagli abitanti di Colono e siamo in campagna, fuori città, in mezzo alla natura. Credo che questo contesto naturale e misterioso dia una chiave diversa tutti anche al coro. Laddove, al contrario, nell’Edipo Re tutto avviene in un contesto urbano, nel centro del potere politico di una potente città».

Qual è il dono di Edipo ad Atene e quindi, in qualche modo, anche noi?

«Edipo sostanzialmente non ha avuto genitori. E lui stesso con Giocasta, non sono stati genitori per i loro quattro figli. Edipo è stato oggetto di una violenza inaudita e misteriosa e lui stesso nella sua vita ha portato avanti e rinnovato la violenza che ha subito. Adesso si ferma. Finalmente. Interrompe la catena della violenza. Ed è forse quello che ci chiede di fare: mettere un punto al ciclo della violenza. Inoltre è straordinario che questa riflessione e questa richiesta vengano situate nel contesto della famiglia e ampliate alla dimensione politica. La tragedia greca in generale e soprattutto qui, nel Teatro Greco di Siracusa, che ha una forza tellurica inimmaginabile dovuta a millenni di storia, vita e teatro, questo in fondo ci dice ancora quasi strutturalmente: accettare la realtà che si trasforma e mettere un punto alla catena della violenza».

Che tipo di rapporto è quello che lei, in quanto regista, instaura con il traduttore del testo di Sofocle, in questo in questo caso con Francesco Morosi?

«Francesco Morosi ha elaborato prima la sua traduzione, ma poi ha lavorato e dialogato lungamente con noi, non solo al tavolo ma anche in regia, per adattarla alla messinscena. Una traduzione deve essere di necessità una consapevole modernizzazione di un testo che deve arrivare al pubblico efficacemente».

 

Crediti fotografici: Michele Pantano

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi collaborare ?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.