la litografia di uno spettacolo parigino di teatro del 1654: Le nozze di Peleo e Theti

Teatro

La “verità” del teatro

Riflessione sulla messa in scena di un testo teatrale, anche musicale.

13 Maggio 2025

Ecco la litografia di uno spettacolo parigino del 1654: Le nozze di Peleo e Theti. Taccio di proposito il nome del compositore, perché l’incisione è un modello di come si rappresentassero tutte le altre opere, a Venezia, dove le Nozze andarono in scena nel 1639 – tre anni prima della monteverdiana Incoronazione di Poppea, allestita in maniera simile, e siamo nella Roma neroniana – o a Roma, a Milano, a Firenze, a Napoli, e negli altri teatri di Europa. Vi sembrano scene e costumi della Grecia antica? Quando si discute di teatro e di messa in scena bisogna avere conoscenza dello sviluppo storico delle consuetudini che riguardano l’allestimento scenico di un testo o di una partitura teatrali. L’idea di una corrispondenza tra l’epoca della vicenda rappresentata e costumi, scene, gesti della rappresentazione è recente, risale a non prima della seconda metà dell’Ottocento, quando in Europa prevale il gusto estetico del realismo. E ciò si riscontra anche nella pittura. L’Annunciazione di Leonardo non ci mostra affatto una donna ebrea del I secolo a. C. , ma una gran dama fiorentina della fine del XV secolo. Ancora più sorprendente un pittore come Caravaggio, che della rappresentazione attuale del sacro ne faceva addirittura una poetica: il quotidiano attuale entra nella rappresentazione della storia come metro di giudizio sul senso stesso della storia. Una prostituta annegata nel Tevere è il corpo della Vergine sul letto di morte. Non per insultare Maria, ma per significare l’universalità del suo compito redentore, redenzione dalla quale nessuno è escluso. Come in altra forma si legge anche nella Madonna dei pellegrini nella chiesa di Sant’Agostino a Roma. Le piante sporche dei piedi dei due oranti inginocchiati ai piedi della Madonna con il bambino in braccio, una popolana che riceve due mendicanti, sono ugualmente scandalose come la scatola di Pop Corn sulla tavola di Cio-cio-san suicida nella Butterfly messa in scena a Spoleto da Ken Russell, emblema del sogno americano dell’infelice geisha.

Unica eccezione, forse, di questa pratica attualizzante, ma parziale, e più di quanto si creda, più simbolica, che integrale, più stilizzata che realistica, è il gusto, e l’intento, di rappresentare l’antichità classica così come la si suppone, la si crede, la si sogna, nel periodo del Neoclassicismo, tra la fine del sec. XVIII e l’inizio del XIX secolo. Ma una ancora più intensa stilizzazione classica si era già avuta in Francia nel secolo XVII con Poussin, la cui operazione non si discosta da quella teatrale di un Racine, in questo assai diversa dal furente e avventuroso sogno eroico, spesso spagnolizzante o bizantineggiante, di un Corneille: Don Sanche d’Aragon in tal senso appare assai più significativo di Le Cid. L’atteggiamento neoclassico nel suo massimo nitore, ma anche con il suo significato politico (l’assassinio di Marat) lo si può vedere nei quadri di David. Perfino i costumi dei contemporanei erano figurati e atteggiati a una supposta classicità greco-romana, come la Paolina Bonaparte di Canova. Ma perché quei costumi erano anche i costumi dell’epoca Napoleonica. La polemica, dunque, sulle “arbitrarie” “attualizzazioni” odierne è pretestuosa. Certo che esistono anche in questi allestimenti moderni messe in scena lodevoli e altre brutte o addirittura bruttissime. Ma ciò dipende dalla bravura o imperizia e mancanza di fantasia del regista. Non è che nelle messe in scena per così dire tradizionali e rispettose delle supposte indicazioni del testo manchino esempi di spettacoli orribili accanto ad altri magnifici (anche questa idea di fedeltà è tuttavia immaginaria, perché i testi corrispondono anch’essi invece sempre al linguaggio dell’epoca in cui sono scritti e non dell’epoca che viene rappresentata). Ripeto, non è il criterio di illusoria fedeltà o di pretesa modernità che garantisce la riuscita dello spettacolo, bensì l’intelligenza e la fantasia del regista.

Chi rifiuta di accettare questo dato di fatto o non conosce la storia del teatro e della figurazione nelle arti o, conoscendola, si rifiuta di accettarla, di riconoscerne le conseguenze nel teatro di oggi. Oppure – non è escluso – non ha la cultura che gli permetta di conoscerla e accettarla. Mi assumo la responsabilità di un simile giudizio. Del resto, questo è difetto già lucidamente individuato da un grande uomo di teatro come Goethe nel prologo in teatro del Faust. Ciò che più mi irrita di costoro è l’arroganza di credersi depositari di una tradizione che invece di fatto non conoscono. Perché l’attualità della rappresentazione c’è già nel testo rappresentato. A parte esempi eclatanti come gli spari di cannone nell’assedio di Angers nel Re Giovanni di Shakespeare: secolo XIII, i cannoni non erano ancora stati inventati, ma alla fine del Cinquecento quando la tragedia è rappresentata invece c’erano ormai da un bel po’. Voglio tuttavia andare ancora più indietro, al teatro greco. Faccio un solo esempio: Edipo a Colono di Sofocle, tragedia sublimillima, se esistesse il superlativo di sublime che è già un superlativo. Edipo, cacciato da Tebe, arriva in Attica e chiede asilo al re di Atene, Teseo. Teseo è disposto ad accoglierlo. ma dice che prima deve chiedere l’approvazione dell’Assemblea Popolare, la Boulé. Ora, nell’epoca mitica della storia di Edipo e di Teseo l’assemblea popolare non c’era ancora, il re aveva potere decisionale assoluto. Ma Sofocle scrive per il pubblico di Atene, e Atene ha un regime democratico.

A questo pubblico Sofocle fa vedere un re che, come un arconte della sua epoca, Pericle per esempio, ubbidisce alle regole democratiche dell’equilibrio dei poteri. È evidentemente una mossa propagandistica, perché Atene è in guerra con l’oligarchica Sparta, e Sofocle vuole dimostrare così la superiorità della democrazia. Tebe, anch’essa una città autoritaria, in cui l’aristocrazia ha il potere assoluto, ha cacciato Edipo, la democratica Atene lo accoglie, ma non per una decisione del re, bensì con l’approvazione di un’assemblea popolare. Se non si capisce questo, puoi anche rappresentare l’Edipo a Colono in un teatro greco con abiti greci, ma del messaggio anche politico della tragedia al pubblico non arriva niente. C’è poi un messaggio umano, e religioso, anzi misterico, e perfino filosofico: il significato della vita e se c’è una sopravvivenza dopo la vita. In un bellissimo dialogo tra Edipo e Teseo Edipo spiega a Teseo la sua condizione di parricida e sposo incestuoso della propria madre. Ma aggiunge: non lo sapevo. Di che cosa dunque sono colpevole, per gli dei? E se questo è il destino che gli dei hanno voluto per me, perché io, e non un altro? Teseo non risponde. E nemmeno il coro. La domanda è rivolta al pubblico: ed è una domanda terribile, sempre attuale. Perché io? perché io nasco in una famiglia benestante di un paese ricco e qualcun altro in una famiglia povera di un paese povero? Destino, si risponde. Ma chi stabilisce il mio destino, il destino di tutti? e come? e perché? Sofocle non risponde. Nessun grande poeta o drammaturgo risponde, nemmeno Shakespeare – to be or not to be – Amleto non ha risposte. Conosce solo la domanda. Il grande poeta e il grande drammaturgo pone domande, non ha risposte. Anche nell’Opera. Nell’Incoronazione di Poppea di Monteverdi, bellissimo il testo di Busenello, la voce della Ragione, dell’Etica, è affidata al filosofo Seneca. Ma Nerone gli risponde che ciò vale per i sottomessi non per i potenti e lui è un potente, la sua morale è il proprio desiderio, e in quel momento il suo desiderio è che Seneca si levi di mezzo: gli ordina di suicidarsi.

L’opera finisce con un duetto d’amore tra Nerone e Poppea. Il difensore dell’Etica è stato eliminato e trionfa il piacere individuale, la volontà del potente di turno. Evidente il messaggio, anche politico, oltre che filosofico, del dramma: il potere che non rispetta l’Etica universale, valida per tutti, è un potere arbitrario. Busenello era un intellettuale veneziano con idee che anticipano l’illuminismo. Mozart segue la stessa traccia. Quando Selim, nel Ratto dal Serraglio perdona a Belmonte e a Costanza che ama, la loro insubordinazione, e li perdona proprio perché ne ha compreso il reciproco amore, dice però, congedandola, a Costanza che gli è caduta ai piedi: “Alzati! non ringraziarmi, ma prega solo Dio di non pentirti un giorno di avere rifiutato il mio amore”. Al primo litigio dei due amanti e poi marito e moglie, si ricorderà Costanza di queste parole del Pascià? In una rappresentazione del Ratto dal serraglio che vidi a Salsburgo anni fa, nel 1997, nel cortile della Residenza, direttore Mark Minkowski, regia dell’ebreo francoungherese François Abou Salem, il pascià Selim interpretato dal libanese Akram Tillawie, che rimasto solo sulla scena, alla fine dell’opera, è avvicinato da alcuni servi che gli fanno indossare i panni di un mistico sufi, e Selim allora comincia ruotare su sé stesso fino a smarrirsi nell’estasi: l’Occidente di Belmonte e Costanza è andato via, è lontano, salvo sulle rive della Spagna, l’Oriente del pascià, nell’Africa musulmana, si rinchiude in sé stesso. Salem non sapeva, allora, forse, quanto fosse profetica la sua visione di una irreparabile scissione dei due mondi, ma l’intensità di quella danza sufi apparve a tutti come profondamente mozartiana, un compositore che ha scavato come pochi altri dentro la solitudine di ciascuno dei suoi personaggi. Si pensi al congedo della Contessa nelle Nozze di Figaro: “Più docile sono, / e a tutti perdono”, ma i violini che precipitano dall’acuto al grave la smentiscono: certo si è perdonati, ma la felicità è perduta per sempre. Del resto tutte le opere di Mozart hanno un finale aperto. Che succede alle coppie del Così fan tutte, dopo che si sono scambiate i partner? o nel Don Giovanni a chi è stato in contatto con il libertino? E nelle Nozze che rapporto sarà quello tra il Conte e la Contessa? Unico esito felice è quello del Flauto magico. Ma è una fiaba. Eppure, nella fiaba, gli unici due personaggi, che affrontando il fallimento del proprio sogno di amore pensano al suicidio sono i due più fragili, Pamina e Papageno.

C’è poi un solo particolare che inficia la posizione di chi pensa che nel teatro del passato si attualizzasse solo l’azione del teatro contemporaneo, la visione che nel tempo si aveva del passato. Anche nel passato, invece, si rappresentava il teatro di epoche precedenti, e soprattutto si rappresentava il teatro grecoromano. Ma appunto lo si rappresentava come teatro contemporaneo. Esemplare l’Amleto messo in scena a Weimar da Goethe, o, sempre nel Settecento da Garrick in Inghilterra. Garrick cambiava addirittura i finali: nel Re Lear qualcuno arriva a salvare Cordelia e tutto finisce nel migliore dei modi. Non solo, ma sia in Italia sia in Inghilterra e in Spagna si rappresentava il teatro antico, i greci e Seneca, Terenzio, Plauto, ma sempre rigorosamente con scenografia e costumi contemporanei. Il filosofo Spinoza, nel XVII secolo, ad Amsterdam partecipa, alla fine dei suoi studi, a una messa in scena dell’Andria di Terenzio recitata in latino, ma con scene e costumi del seicento. Il punto non era affatto la rappresentazione dei greci, ma di qualsiasi epoca. Vedi a Venezia gli affreschi del Carpaccio che rappresentano il martirio di Sant’Orsola e delle sue compagne. È che da molti si ha un’idea distorta della filologia, la quale in ogni caso riguarda solo la ricostruzione dei testi. Per la messa in scena dobbiamo ricorrere a testimonianze figurative o letterarie dei contemporanei, e queste ci attestano una concezione del teatro come rappresentazione sempre della contemporaneità. Allora siamo fedeli a queste testimonianze quando c’illudiamo di mettere in scena ciò che supponiamo ci chieda il testo o siamo invece più fedeli se rispettiamo la concezione di un testo come perennemente contemporaneo? È del resto qualcosa che ha spiegato benissimo Calvino quando parla dell’attualità dei classici.

È come se ogni volta, a ogni lettura, i classici riscrivessero il proprio testo adeguandolo al lettore del momento. Bisogna distinguere, infatti, l’effettiva conoscenza della storia dei testi e nel caso di testi teatrali della storia delle messe in scena, dal gusto individuale di ciascuno, che oltretutto quando crede di rispettare la storicità di un testo non fa in realtà che adattare quel testo a ciò che lui crede essere la storicità del testo. La Traviata, la cui azione, nella prima rappresentazione fu spostata a un secolo prima, al 1750 – siamo già in pieno clima realistico ottocentesco e il contemporaneo si sopporta nell’opera buffa, ma non nell’opera tragica (quella seria settecentesca è una memoria la cui ombra sono le opere di Rossini, le quali, però, poi aprono alla nuova opera tragica romantica, pur non essendo esse romantiche – l’abito attuale disturbava in questo caso la morale perbenista borghese, una donna “traviata” (oggi diremmo una “puttana”) era ammessa nel libertino settecento non nella contemporaneità, tanto meno dalla retriva borghesia italiana che non era la più moderna borghesia francese, anch’essa tuttavia perbenista quanto l’italiana, ma più abituata alle stranezze del teatro (Victor Hugo poteva portare sulla scena un re libertino, anzi perfino lo storico Francesco I, e il suo buffone gobbo, in Italia bisognava accontentarsi di un meno potente duca di Mantova, e di fatti in Francia la Traviata fu rappresentata in abiti contemporanei, e fu un trionfo. Ma poi il problema non era tanto l’epoca, quanto il sospetto di una critica ai costumi dell’epoca, la Traviata gioca sull’impatto che quanto avviene sulla scena avviene nel tempo del pubblico che assiste allo spettacolo. Nel libretto l’azione è datata 1850, l’opera si rappresenta a Venezia nel 1853. Se oggi la vediamo in abiti ottocenteschi ci sembra una storia di amore romantico. In abiti di oggi la vicenda è ancora attuale. Una famiglia italiana per bene accetterebbe oggi che uno dei suoi rampolli sposasse una prostituta? o magari addirittura una prostituta immigrata? Insomma, piaccia o no, il teatro ci mette sempre a confronto con una storia che ci riguarda. L’anno scorso ha avuto immenso successo a Madrid la rappresentazione di un dramma di Calderón de la Barca, Eco y Narciso. Narciso è vittima di una madre iperprotettiva che non gli fa vedere nessuno perché un oracolo aveva predetto che sarebbe morto quando avesse visto la faccia di un uomo. Narciso vede sé stesso nella fonte e si uccide. Il pubblico ha riconosciuto nella bellissima commedia di Calderón (versi di una musicalità inarrivabile) un problema di oggi: il soffocamento iperprotettivo dei genitori.

Non è questo il luogo per approfondire. Ma – al netto delle regie sceme, e queste possono essere sia tradizionali che moderne – la lettura contemporanea è sempre un arricchimento, non una sottrazione. La scena non è uno spazio autosufficiente, ma è in continuo dialogo con il pubblico. La messa in scena non è un saggio critico, né una dissertazione su come si debba fare teatro, ma appunto una messa in scena, il fatto puro e semplice di fare teatro, e deve risultare comprensibile al pubblico che vi assiste non per quello che si sente dire, o non solo per quello che si sente dire, ma per ciò che vede. Altrimenti il teatro riesce un narcisistico ed estetizzante gioco autoreferenziale. I musicisti, o meglio una parte dei musicisti, poi, per quanto riguarda il teatro musicale, dovranno arrendersi all’evidenza che la musica non è l’unica componente di un’opera, e che il rispetto di come si costruiva lo spettacolo intorno alla musica, ammesso che sia possibile, è irrilevante, così come la sua configurazione scenica e attoriale, perché cambiano di epoca in epoca. O altrimenti dovremmo affidare la realizzazione di una tragedia greca ad attori maschi che indossino una maschera, e del teatro elisabettiano ai soli attori maschi, e condurre sulla scena attori adolescenti per le parti femminili. Ma se noi vedessimo oggi un’Aida come la si rappresentava solo un secolo fa o anche meno, inorridiremmo. Ma c’è chi queste cose le ha scritte meglio di me, ed è Carl Dahlhaus, il grande musicologo tedesco. Nel volume dedicato ai drammi musicali – termine che non è di Wagner ma che Dahlhaus spiega perché sia giusto oggi adoperarlo – c’è un capitolo, l’ultimo, dedicato alla messa in scena – L’opera di Wagner in scena. Nelle edizioni Marsilio uscì, tradotto in italiano, nel 1984, esauritasi l’edizione, lo ha ripubblicato la Casa Editrice Astrolabio nel 2024. L’edizione originale tedesca è del 1971, Hannover, Erhard Friedrich Verlag. Lo si legga, dice con maggiore chiarezza e meglio di me quanto qui mi sono sforzato di dire. Sarà molto difficile confutare gli argomenti di quel prezioso capitolo. E si badi che a Dahlhaus si deve la nuova e monumentale edizione critica dei drammi musicali di Wagner, testi e partiture. Non è dunque uno studioso che non abbia dimestichezza con la filologia. O che parli a vanvera.

Qualcuno potrebbe desiderare, dopo tanto discorrere sulle forme che ha assunto nella storia europea il teatro, una riflessione conclusiva. Ma non esiste una possibile riflessione conclusiva. Il teatro si evolve e cambia con l’evolversi e mutarsi del tempo. Chi vorrebbe fossilizzarlo in una forma immaginaria di restituzione della verità scenica legata alla logica del testo messo in scena non ha la minima idea di che cosa sia veramente il teatro: la vicenda degli Atridi, da Eschilo a Sartre, è stata riscritta centinaia di volte e ogni volta in modo diverso. Lo stesso testo di un singolo drammaturgo, ogni volta che viene messo in scena è adattato alle condizioni reali del teatro e alle idee di chi lo mette in scena: sia all’idea di rispettarne la configurazione storica come a quella di sentirsi liberi di leggerlo in maniera nuova, entrambe sono interpretazioni e non riproduzione fedele, cosa del tutto impossibile, perché qualunque lettura, anche quella che s’illude di essere una semplice restituzione di ciò ch’è stato scritto è in realtà un’interpretazione. Anni fa vidi alla Biennale di Venezia, allestito nello spazio dell’Arsenale, un Hamlet messo in scena da Peter Brook in cui la scena era un tappeto. Gli attori vi stavano seduti intorno. E attuavano entrando e uscendo dallo spazio del tappeto. Amleto era William Nadylam, un giovane, bellissimo attore nero. Intensissimo l’incontro con lo spettro del padre. Amleto, solo, sul bordo del tappeto riflette su quanto ha appena ascoltato dall’amico Horatio sull’apparizione de re Amleto suo padre. Avverte a un certo punto una presenza alle spalle. Si volta, riconosce il padre, non si chiede se sia lui o il fantasma di cui gli ha parlato l’amico, gli butta le braccia al collo e lo abbraccia. Poi comincia il dialogo. Altro aspetto emozionante della recitazione era che gli attori non declamavano, come spesso fanno gli attori italiani, non gridavano. ma parlavano, anche i versi, e tutta la musica del blank verse shakespeariano finalmente la si ascoltava in tutta la sua straordinaria variabilità e bellezza. Perché la musica del verso sta nella sua metrica, e quindi nella sua dizione, non nell’enfasi della declamazione. Ecco: anche il teatro elisabettiano non aveva né scene né costumi. Un personaggio dice, questo è il castello di Elsinore e il pubblico immagina il castello di Elsinore.

La scena immaginata da Peter Brook è un tappeto. Nel 2022 Roberto Carsen mise in scena nel teatro greco di Siracusa l’Edipo Re di Sofocle. Edipo era, bravissimo, Giuseppe Sartori. Nella scena conclusiva della tragedia compare in cima alla gradinata completamente nudo, gli occhi due macchie nere da cui cola sangue. Ecco visualizzata teatralmente la nudità della condizione umana alla quale è destinato Edipo, come ritornasse alle ferite del bambino esposto sul Citerone, i piedi bucati, da cui il suo nome. Bucati sono ora gli occhi. E non ha a coprirlo nessun manto regale. Un corifeo, pietosamente, copre il suo corpo con uno straccio. A teatro tutto ciò che si vede ha senso, quanto ciò che si ascolta.”Di tutti i nomi che ha il male non te ne manca nessuno” dice il corifeo. Sta qui il nodo della tragedia: qualunque sia la grandezza che si raggiunge, si può all’improvviso piombare nel nulla. L’uomo non ha nessun motivo d’inorgoglirsi. Credersi più di ciò che è realmente è superbia, hybris. L’oracolo di Apollo lo avverte: conosci te stesso. Vale a dire: conosci i tuoi limiti, la tua fragilità, la tua miseria di creatura mortale.

Non sei un immortale, e non lo sarai mai. Achille, nell’Ade, invidia la sorte di un contadino, perché vivo, lui che invece è morto non sa che farsene della gloria. È Omero che lo scrive, Odissea, canto XI, quando Ulisse si accosta all’ingresso degl’inferi per interrogare Tiresia. Edipo è un eroe del mito, il che per un greco voleva dire un esempio della condizione umana, di che cosa sia la condizione umana. Come restituire allo spettatore di oggi questa consapevolezza dell’esemplarità del personaggio tragico se non appunto con il farlo vedere come uno di noi, e di noi oggi? È ciò che fa Carsen. O Peter Stein quando mette in scena, a Berlino, l’Oresteia di Eschilo. In questo il teatro è “filosofico”, scrive Aristotele, perché ci mostra l’essenza di ciò che siamo: il possibile, non l’attuato, un modello della realtà, non la realtà. Ciò che si vede sulla scena non è la realtà, ma un’idea della realtà. Lo stesso realismo non rappresenta veramente la realtà, ma la propria idea di realtà: è uno stile, una convenzione, non la realtà. Non a caso, forse, il film più riuscito del neorealismo italiano è La terra trema di Lucino Visconti. perché l’idea di una assoluta corrispondenza tra l’ immagine e la realtà è perfetta, è quasi più importante dell’azione raccontata, è uno stile, una poetica. Ma non è l’unico modo di fare cinema. Nemmeno per Visconti, che poi prese altre strade.

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