televisione
Le Piatte Forme
Le produzioni seriali degli autori comici italiani per lo streaming sono film mediocri allungati in episodi vuoti. L’idea iniziale viene stiracchiata senza evoluzione narrativa. Il meglio sta nel trailer, il resto in promozioni estenuanti per mascherare l’assenza di sostanza.
Esiste un fenomeno peculiare nel panorama dell’intrattenimento italiano contemporaneo, una sorta di illusione ottica narrativa che si materializza con regolarità preoccupante sulle piattaforme streaming: progetti che nascono come promesse di serialità innovativa e si rivelano, episodio dopo episodio, nient’altro che film mediocri diluiti in segmenti da venticinque o cinquanta minuti. Questa sindrome colpisce soprattutto gli autori comici italiani di breve e lungo corso e i vivaci creativi che si sono fatti le ossa (e un nome) per anni coi video su YouTube che, da quando hanno iniziato a lavorare per Amazon Prime, Paramount+ e Netflix, hanno trasformato questa pratica in una vera e propria formula produttiva, un compromesso al ribasso che tradisce tanto il formato seriale quanto quello cinematografico.
Il problema non risiede nella transizione dalle precendenti produzioni alle piattaforme streaming – transizione inevitabile e potenzialmente feconda – ma nell’incapacità di comprendere cosa significhi realmente “pensare seriale”. Una miniserie non è un film tagliato a fette come un salame, non è un video YouTube di genere commedia allungato con il brodo per raggiungere sei episodi invece dei cinque o novanta minuti complessivi iniziali. Eppure è esattamente questa l’impressione che si ricava guardando molte di queste produzioni: l’idea iniziale, magari anche discreta, viene stiracchiata fino allo sfinimento, priva di quella complessità narrativa, di quegli archi evolutivi dei personaggi, di quelle sottotrame intrecciate che caratterizzano le grandi serie internazionali.
Registi e attori che hanno segnato intere generazioni con film capaci di coniugare commedia e malinconia, ma anche brillanti giovani autori e comici, sembrano essersi fermati alla superficie quando hanno abbracciato il formato seriale. Le loro produzioni mostrano l’impronta autoriale riconoscibile – le ossessioni, i tic caratteriali dei personaggi, le ambientazioni familiari – ma mancano completamente di respiro. Ogni episodio assomiglia sospettosamente al precedente, i personaggi non evolvono, le situazioni si ripetono con variazioni minime. È come se gli autori avessero pensato: “Ho un’idea per una commedia sui rapporti familiari, la stiro per sei ore invece di due e la vendo come serie”. Oppure “parliamo della divisione tra nord e sud Italia, facciamolo in maniera spiritosa ma anche “politica””. O anche “raccontiamo una crisi di creatività di un autore in maniera divertente”. Il risultato è un prodotto asfittico, dove il ritmo si perde nelle ripetizioni e l’umorismo si consuma ben prima del finale. Novelli René Ferretti, si battono strenuamente per abbattere qualsiasi speranza di produzione narrativa di livello almeno decente, almeno per salvare la propria eredità culturale.
C’è un’ironia amara in questa corsa delle produzioni italiane alle piattaforme streaming. Proprio mentre i finanziamenti pubblici per il cinema italiano attraversano una crisi profonda, con fondi sempre più ristretti e controlli sempre più severi sulla qualità dei progetti (almeno così enuncia chi tiene i cordoni della borsa), ecco materializzarsi un’ancora di salvezza provvidenziale: le piattaforme internazionali e il loro appetito vorace per i “contenuti originali italiani”.
Non si tratta di una coincidenza. Le normative europee impongono quote di produzioni locali, Netflix e Paramount+ hanno budget consistenti da spendere, e i nomi noti del cinema italiano garantiscono visibilità immediata. È la tempesta perfetta per chi cerca finanziamenti facili senza l’onere di doversi confrontare con commissioni di valutazione o rendicontazioni complesse.
Il meccanismo è semplice quanto cinico: invece di affrontare la fatica di costruire progetti cinematografici solidi che possano competere per i fondi pubblici sempre più scarsi, si confeziona un’idea approssimativa, la si spaccia per “miniserie innovativa”, e si vende a una piattaforma affamata di contenuti italiani. Il cerchio si chiude perfettamente: gli autori ottengono i finanziamenti che il cinema tradizionale non garantisce più, le piattaforme soddisfano gli obblighi normativi, e la qualità… beh, quella può aspettare.
I nomi altisonanti del cinema comico italiano garantiscono visibilità e un pubblico di base. Perché dunque preoccuparsi di costruire realmente una narrazione seriale, con tutto il lavoro di scrittura, progettazione e costruzione drammaturgica che questo comporta, quando si può semplicemente consegnare un prodotto che formalmente rispetta i parametri richiesti (numero di episodi, durata totale) ma sostanzialmente è vuoto?
Il trailer, paradossalmente, diventa il momento di massima concentrazione creativa. Lì, in due minuti, vengono condensate tutte le gag migliori, le situazioni più promettenti, i dialoghi più brillanti. E spesso basta quello: le piattaforme ottengono i click iniziali, l’autore incassa il compenso, il pubblico viene attirato dal nome familiare. Che poi, dopo il primo episodio, lo spettatore si renda conto che ha già visto tutto quello che c’era da vedere nel materiale promozionale, è un problema che sembra interessare poco. La fidelizzazione, la costruzione di un pubblico che attenda con trepidazione l’episodio successivo, il passaparola positivo basato sulla qualità: tutto questo viene sacrificato in nome di un modello produttivo veloce e poco ambizioso.
Non a caso, questi progetti vengono accompagnati da campagne promozionali ipertrofiche, sproporzionate rispetto alla qualità del prodotto finale. Gli autori appaiono ovunque: talk show televisivi, programmi radiofonici, podcast di ogni genere, interviste sui maggiori quotidiani. Un tour promozionale estenuante che dovrebbe far suonare qualche campanello d’allarme: quando si spende così tanto in marketing, così tanta energia nel “raccontare” il progetto invece che nel “mostrarlo”, è spesso perché il prodotto stesso non regge da solo. È la logica del bluff pubblicitario applicata all’intrattenimento: creare aspettativa per un contenuto che quelle aspettative non è in grado di soddisfare.
Il problema non è solo estetico o qualitativo, è anche culturale. Questa approssimazione al formato seriale contribuisce a perpetuare l’idea che la produzione italiana sia strutturalmente incapace di competere con gli standard internazionali, che possa ambire al massimo a ritagliarsi una nicchia provinciale fatta di prodotti “per il mercato locale”. È un autogol imperdonabile in un momento storico in cui le barriere linguistiche stanno cadendo, in cui serie sudcoreane, spagnole, turche conquistano audience globali, in cui esiste una fame vera di contenuti diversi e originali.
Gli autori comici italiani hanno dimostrato in passato di saper fare cinema di qualità, di avere talento comico e sensibilità narrativa. Proprio per questo la loro resa alle logiche del “minimo sforzo seriale” è ancora più deludente. Non si tratta di chiedere loro di tradire la propria cifra stilistica o di snaturarsi per inseguire mode straniere, ma semplicemente di rispettare il pubblico e il formato che hanno scelto. Una serie merita lo stesso impegno autoriale di un film, se non maggiore. Richiede visione a lungo termine, capacità di costruire archi narrativi complessi, disponibilità a lasciare che i personaggi crescano e si trasformino.
Finché gli autori italiani continueranno a considerare le piattaforme streaming come bancomat a cui presentarsi con il minimo sindacale creativo, finché le produzioni nostrane saranno “piatte forme” – strutture appiattite e prive di spessore – il divario con la serialità internazionale continuerà ad allargarsi. E nessuna quantità di interviste promozionali, nessun passaggio televisivo, nessun podcast potrà colmare quel vuoto fondamentale: l’assenza di sostanza, l’incapacità di andare oltre il trailer, l’illusione che basti un nome noto e un’idea embrionale per costruire una serie degna di questo nome.
Il pubblico, anche quello italiano, alla lunga, non è stupido. Può essere attirato una prima volta dal nome familiare, ma poi impara a riconoscere la differenza tra un progetto pensato e uno semplicemente assemblato. E quando quella differenza diventa troppo evidente, nessuna campagna marketing al mondo può salvare la credibilità perduta. Nel frattempo meglio rivedere la quarta stagione di Boris dove tutto quello che abbiamo scritto era già stato raccontato perfettamente qualche anno fa, sotto forma di quella che sembrava esagerazione parossistica. Era invece un documentario.
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