In natura nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Nelle economie tradizionali di un tempo vigeva un principio analogo. Non si sprecava niente: gli avanzi della cena diventavano la colazione del giorno dopo, il letame del cavallo o dell’asino si trasformava in prezioso fertilizzante, gli scarti di falegnameria alimentavano il fuoco del camino. Oggi, in tempi di 5G, deep learning, nanomacchine ed editing genetico, reminiscenze del genere possono far sorridere. Ma la loro circolarità intrinseca è profondamente attuale. Perché i benefici dell’economia circolare – nuovo mantra del manifatturiero avanzato – sono molteplici: dal risparmio energetico, alla tutela della biosfera; dal contrasto all’emergenza climatica, alla protezione (per le aziende) dalla volatilità dei prezzi e dalla carenza delle commodities; da una gestione ottimale dei rifiuti, alla creazione di nuova occupazione di qualità.
L’economia contemporanea è profondamente lineare. Dato un determinato input, ne deriva un output, più dello scarto. E l’output stesso, prima o poi, diventerà a sua volta scarto. Che magari languirà per decenni in soffitta, o andrà ad allargare i confini dell’isola di plastica più vasta della Francia che galleggia nel Pacifico settentrionale.
L’economia circolare, invece, mira a conservare il più a lungo possibile il valore delle materie prime e dei prodotti finiti. Riducendo gli sprechi al minimo, e restituendo al ciclo produttivo scarti e output giunti al termine del loro ciclo di vita. In altre parole: ciò che nell’economia lineare si butta, in quella circolare rinasce come nuova risorsa. Mica male, se si considera per esempio che, secondo le stime dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti (EPA), nel 2010 le discariche hanno rappresentato oltre il 16% di tutte le emissioni antropogeniche americane di metano (uno dei famosi gas serra).
Ma il passaggio all’economia circolare gioverebbe anche al portafogli, oltre che all’ambiente. Stando ai dati McKinsey, nella sola Europa si tratterebbe di quasi 2mila miliardi di euro di benefici netti entro il 2030. Con un aumento del PIL di sette punti percentuali rispetto agli scenari di sviluppo attuali, e un impatto positivo anche sull’occupazione.
Certo, il traguardo è ancora lontano. La stragrande maggioranza dei prodotti e dei processi produttivi, attualmente, sono concepiti secondo il modello dell’economia lineare. Ma qualcosa si sta muovendo, anche in Italia. Anzi, soprattutto in Italia. Secondo il rapporto pubblicato a inizio anno dal Circular economy network e dall’Enea, l’Italia è prima in Europa per quanto riguarda l’economia circolare. Battendo, in questo terreno, economie più grandi e/o dinamiche come quelle di Regno Unito, Germania, Francia e Spagna.
Attenzione però: si tratta di un primato che il paese potrebbe perdere presto, perché il medesimo rapporto evidenzia come l’avanzamento dell’indice di circolarità in Italia, adesso, sia più lento che altrove. Le misure da adottare per incentivare e sostenere il cambiamento sono molte, a cominciare da quelle legislative.
Valentina De Marchi è ricercatrice al Dipartimento di scienze economiche e aziendali dell’Università di Padova, che insieme a Legambiente ha curato un’indagine sull’economia circolare nelle imprese italiane. «Quando abbiamo chiesto alle imprese che hanno già implementato modelli di economia circolare quale sia la loro difficoltà più grande la maggior parte ci ha parlato della legislazione, definendola inadeguata e contraddittoria».
Per far sì che l’economia circolare italiana cresca, continua la ricercatrice, urge che il legislatore definisca con chiarezza le regole e aumenti il numero di materie prime seconde (ossia gli sfridi di lavorazione o i materiali ricavati dal recupero e riciclaggio dei rifiuti) per le quali è autorizzata la trasformazione da rifiuto a risorsa.
«Un altro provvedimento importante sarebbe incentivare l’adozione di pratiche di economia circolare – nota De Marchi –, ad esempio favorendo le imprese più virtuose nelle gare d’appalto pubbliche». Per la ricercatrice, in ogni campo che preveda la trasformazione di risorse il design dei prodotti e dei processi può ispirarsi al paradigma dell’economia circolare. Senz’altro però, «settori come il chimico e quello del trattamento dei rifiuti sono i primi a essere coinvolti nella transizione».
È il caso del gruppo bolognese Hera, multiutility con fatturato da 6,6 miliardi, specializzata nei servizi ambientali, idrici ed energetici. «La transizione a un’economia circolare fa parte del nostro piano industriale – dice Filippo Bocchi, direttore valore condiviso e sostenibilità –. Stiamo investendo su diversi obiettivi. Dalla crescita della raccolta differenziata, che l’anno scorso ha raggiunto il 62,5% nel territorio servito, agli impegni presi con la Commissione Europea e la Fondazione Ellen MacArthur per il riciclo della plastica».
Il Gruppo Hera è attivo anche nella prevenzione dei rifiuti attraverso progetti che coinvolgono cittadini e onlus, e nella produzione di energia rinnovabile e compost di qualità dalla raccolta dei rifiuti organici. Ciò, spiega Bocchi, «attraverso l’impianto di Sant’Agata Bolognese, recentemente inaugurato, che produce oltre 7 milioni di metri cubi di biometano per autotrasporto l’anno».
Grazie agli investimenti in ricerca, inoltre, l’azienda genera energia rinnovabile anche dalle potature e dai fanghi prodotti nel ciclo di depurazione delle acque reflue. Per Bocchi, «il modello circolare è premiante perché porta finalmente a considerare la sostenibilità come elemento fondamentale e soprattutto vantaggioso sul piano economico, coinvolgendo tutti gli attori, dai cittadini agli stakeholder».
Molto orientata all’economia circolare anche un’altra realtà specializzata nella gestione dei servizi ambientali. Si tratta di Contarina, società 100% pubblica, diretta e coordinata dal Consiglio di Bacino Priula, in provincia di Treviso. Anche in questo caso, conferma il suo direttore generale, Michele Rasera, «l’economia circolare è alla base delle nostre scelte strategiche».
Per quanto riguarda in particolare l’estrazione di materie prime seconde dai rifiuti, l’azienda ha due impianti. «Quello di selezione del multimateriale, da cui si ricavano carta e cartone pronti per essere riutilizzati proprio come materie prime seconde – dice Rasera –, e l’impianto dell’azienda FaterSMART per il riciclo dei prodotti assorbenti per la persona». Un tipo di rifiuto, questo, che nel territorio servito da Contarina rappresenta ben un quarto del rifiuto secco raccolto.
«La tecnologia sviluppata e brevettata da FaterSMART rende più sostenibili dei prodotti sino ad ora non riciclabili – nota Rasera –. A regime l’impianto è in grado di smaltire fino a 10mila tonnellate l’anno di prodotti assorbenti usati, ricavando da ogni tonnellata 150kg di cellulosa, 75kg di plastica e 75kg di polimero super-assorbente, a cui dare una seconda vita». Non a caso, uno dei risultati ottenuti l’anno scorso, è stata la riduzione di rifiuto secco non riciclabile a 57 chili per abitante l’anno.
E se è vero che le grandi aziende possono contare su maggiori risorse, per De Marchi la transizione all’economia circolare è una grande opportunità anche per le PMI. «Anzi – nota la ricercatrice – direi che può essere un’opportunità persino più importante che per le grandi imprese. Ciò vale sia per le PMI che competono su qualità e differenziazione, e identificano nell’economia circolare la possibilità di realizzare un vantaggio competitivo in mercati sensibili, sia per le startup, che possono organizzare fin da subito le attività secondo un modello di economia circolare».
Lo dimostra l’esperienza di Wastly, startup innovativa nata a Cagliari nel 2015, e che oggi dà già lavoro a una quindicina di persone, fra dipendenti, collaboratori e consulenti. «Siamo il marketplace online dell’economia circolare – spiega Paola Obino, CEO e fondatrice di Wastly –. Sulla nostra piattaforma le aziende si incontrano per vendere e comprare le materie prime seconde al miglior prezzo sul mercato».
Il team della startup verifica le autorizzazioni degli iscritti al portale, in modo che venditori e acquirenti possano operare in totale sicurezza. In questo modo, continua Obino, «contribuiamo alla creazione di un mercato dinamico delle materie prime seconde incentivando l’uso di materiali riciclati nei prodotti e nelle infrastrutture». In quanto piattaforma online, il raggio di azione è potenzialmente globale. Per il momento però, Wastly si sta concentrando sull’Italia, anche perché «sul tema rifiuti esiste tutto un corpus normativo specifico che varia di nazione in nazione» specifica Obino.
Gli inizi sembrano promettere bene. Oltre ai fondi personali dei fondatori, e al sostegno di alcuni investitori privati, Wastly ha ricevuto un Voucher startup (un incentivo di settore) da 50mila euro nel 2016, seguito l’anno scorso dai 413mila euro di Sardegna Ricerche, di cui 250 mila euro di contributo e 160 mila euro cofinanziati dalla startup. «Al momento la piattaforma ha circa un centinaio di iscritti, fra industrie del riciclo e manifatturiere che producono con materie prime seconde, e che stanno ultimando una fase di test sulle funzionalità del sistema» conclude la CEO.
Un motore fondamentale per il cambio di paradigma da economia lineare a circolare, è la ricerca. Lo sanno bene alla Mapei, colosso milanese della produzione di materiali chimici per l’edilizia su piazza da oltre 80 anni, che investe il 5% del suo fatturato (quasi 2 miliardi e mezzo) in progetti di ricerca e sviluppo. Giorgio Ferrari guida il gruppo di ricerca e sviluppo sull’HPSS, acronimo che sta per High Performance Solidification/Stabilization: un sistema brevettato dall’azienda, che consente di trattare residui contaminati, renderli inerti e riutilizzarli. «La ricerca svolta per l’HPSS ha dato il via a una serie di progetti e prodotti orientati proprio alla sostenibilità ambientale nel settore delle costruzioni – spiega Ferrari –. L’esempio più calzante è l’additivo Re-con zero evo, che consente il recupero integrale del calcestruzzo reso».
Vero grattacapo per gli impianti di produzione, il calcestruzzo reso è la quota di calcestruzzo fresco che non viene utilizzata durante la costruzione dell’edificio, e resta in autobetoniera. Il più delle volte non è recuperabile né riciclabile, e quindi diventa un rifiuto da smaltire. «Con un impatto ambientale considerevole, perché si ricorre alle discariche, e naturalmente con un aggravio dei costi – aggiunge Ferrari –. L’additivo che abbiamo sviluppato trasforma il calcestruzzo reso in un materiale granulare direttamente nell’autobetoniera, senza originare rifiuti solidi né liquidi. E producendo fino a 40 volte in meno di CO2 rispetto allo smaltimento in discarica».
Una volta indurito, questo materiale può essere usato per la produzione di nuovo calcestruzzo con ottime caratteristiche meccaniche. È la filosofia dell’economia circolare: trasformare lo scarto inutile in risorsa utile. Del resto si stima che, su scala globale, si producano 900 milioni di tonnellate l’anno di calcestruzzo reso: una quantità enorme.
Ovviamente il problema non riguarda solo l’edilizia: dalla plastica degli imballaggi alla carta dei vecchi giornali, dagli scarti agroalimentari al trattamento delle acque nere, il punto è che l’intero sistema produttivo globale deve adeguarsi agli imperativi di una biosfera sempre più fragile e sotto stress. E l’Italia, seconda potenza manifatturiera d’Europa, non può non fare la propria parte.
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