Rural Design Week: la provincia meridionale dichiara guerra all’estetica triste

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13 Giugno 2019

L’idea, la realizzazione, le prospettive 

La Rural Design Week, ambiziosa, visionaria, anomala e meritevole, probabilmente, di una maggiore visibilità, ha appena concluso la sua prima edizione, affidata alla direzione scientifica di Iain Chambers, insigne antropologo esperto di studi culturali, e alla direzione artistica della sociologa Valentina Anzoise.

L’evento ha concentrato il proprio palinsesto nel comune di San Potito Sannitico (Caserta), situato nel parco regionale del Matese, coinvolgendo, però, anche altri comuni limitrofi come Piedimonte (Caserta) e Faicchio (Benevento). Quest’ultimo, nello specifico, è il piccolo borgo che ospita la sede fisica dell’associazione Ru.De.Ri (acronimo di “Rural Design per la Rigenerazione dei territori”), promotrice dell’iniziativa.

Cominciamo col dire che la Rural Design Week, durata dieci giorni (dal 31 maggio al 9 giugno) e improntata sui temi dell’economia circolare e del design sistemico, ha impiegato davvero pochissimo tempo per convincerci della sua pertinenza. Di fatto, ci è bastata una premessa involontaria: il tragitto da percorrere per raggiungerla.

Tra macchie di papaveri ed effetti della luce tardo-primaverile traducibili a dovere solo da qualche esteta “del tempo che fu” con cui fatichiamo a competere, non abbiamo potuto non notare sin da subito lo squadernarsi dei campi in abbandono. Di una dolorosità sorda, diffusa, atmosferica. Campi incolti. Anzi, a uno sguardo più retorico del nostro, crampi incolti. Un odioso calembour.

“Questo luogo vi stava aspettando”. Parole proferite con enfasi, a chiosa del vernissage, che ci è parso confermassero le impressioni lungo il tragitto. A pronunciarle, nel cortile interno assediato dall’edera del gentilizio, nonché incantevole, Palazzo Filangieri, è stata la proprietaria dell’immobile.

E, in effetti, San Potito, con i suoi percorsi dell’acqua, le tracce ben visibili del passaggio della street art e le sue sperimentali proposte architettoniche con cupole in stile nubiano, disintegra le aspettative del visitatore medio, pessima categoria frequentata a intermittenza da ciascuno di noi, trascinandolo in contatto con un genius loci che parla la lingua del dinamismo, dell’apertura, della ricerca di impulsi vitali. Il contesto ideale in cui innestare un discorso sulla ruralità critica, autentico leitmotiv della Rural Design Week. Ma in cosa consiste, in effetti, la ruralità critica?

Essenzialmente, nella rottura del paradigma secondo il quale la ruralità debba essere per forza sinonimo di arretratezza. Nel ripensare le aree rurali come un terreno fertile entro cui declinare la modernità in base a schemi alternativi, da concimare attraverso un’idea di innovazione non meramente sviluppistica, ma obbediente a criteri ispirati all’ecosostenibilità, all’economia circolare. Ossia a una forma di economia che limiti al massimo il proprio impatto sull’ambiente, reintegrando nel processo produttivo i materiali di scarto, ponendosi il problema del riutilizzo dello scarto ex ante, guardando allo scarto come a una risorsa.

Così Mario Festa, architetto, rural designer, tra gli ideatori della RDW2019 e coordinatore degli allestimenti: “Molte città hanno le loro manifestazioni di design week: Milano, Parigi, New York. Ma sono assenti i luoghi della ruralità, i paesi. Noi ci siamo inventati questa Rural Design Week in una prospettiva differente. Facciamo nostro l’esempio del design system: tutti le pratiche che noi attiviamo devono essere in connessione con la natura. Se avvenisse questa riconciliazione con la natura, penso che faremmo del bene alla nostra salute, al nostro ambiente, al nostro sistema economico, al cibo, all’aria, ecc. Non si vive di simulacri come il design e il fashion. Perché non possiamo rivendicare la nostra modernità in questo e ribaltare la visione?”.

Dunque, uno degli scopi dichiarati dell’iniziativa sembra sostanziarsi nel sottrarre il design dalle grinfie egemoni “dell’estetica triste”. Dimensione in cui quest’ultimo svolge un ruolo fondamentale nella costruzione della merce in qualità di “fantasmagoria”, per dirla con Benjamin, trasformandola in “simulacro” e contribuendo a occultare tutte le storture in termini di sfruttamento dei lavoratori e impatto ambientale che spesso afferiscono al processo di produzione della medesima.

Design che, in questa prospettiva, anziché generare una mera fascinazione attorno ai prodotti ingentilendone l’aspetto, deve, al contrario, cooperare nel demistificare la presunta neutralità di vocaboli come innovazione o tradizione. Che spesso sono sinonimi silenziosi di feticismo, consumismo, ingiustizia sociale o sterile spiritualizzazione e che altrettanto spesso vengono opacizzati da un’inflazione di retorica che ne impedisce una corretta analisi critica: sarà un caso che “tradizione” e “tradimento” hanno una radice etimologica comune?

Ad ogni modo, il vulcanico Mario Festa non si è fermato qui, illustrandoci anche una sua provocazione ludica, orgogliosamente utopica ma dal valore direzionale, la Rural City: “Le aree rurali possono essere attraversate da un flusso di persone di culture diverse, da lingue ed esperienze diverse e che transitano in queste storie rurali e le contaminano. Oggi abbiamo il problema di queste aree che si sono spopolate. Al di là degli strumenti urbanistici superati, con un po’ di fantasia, nessuno ci vieta di immaginare un territorio costituito da diversi borghi che formano i quartieri di una città. Giochiamo anche con l’espressione “città industriale”, con la fabbrica al centro della città: la nostra fabbrica sostenibile è la terra e in questi quartieri che sono i borghi c’è la fabbrica sostenibile, il parco della città sono le nostre montagne, ecc. Giocare sull’immaginario, sulle specificità culturali, lavorare con le persone e far sì che non percepiscano più il piccolo comune ma il territorio nel suo insieme, con tutte le possibilità inespresse”.

Considerazioni seducenti che per il tempo della conversazione hanno tenuto a bada la realtà, con tutti i suoi limiti e con la sua scarsa vocazione all’arrendersi a quello che Mario prospetta come uno dei futuri augurabili.

Ma, d’altronde, la strada maestra imboccata, almeno in linea di principio, dalla Rural Design Week, in cui si sono snodati workshop, laboratori creativi, tavole rotonde, incontri e rassegne cinematografiche tematiche, è stata quella della sensibilizzazione del territorio, tentando di far fermentare la proposta nei mesi a venire ed evitando l’esiziale avvitamento nell’autoreferenzialità. Pur non potendo contare, in fase organizzativa, su risorse economiche importanti. Risorse economiche che, magari, avrebbero permesso una comunicazione più capillare, più strutturata e che avrebbero consentito altresì una maggiore partecipazione.

Così, tirando le somme, con fierezza e realismo, Luigi D’Oro, allestitore esperto premiato alla Biennale di Venezia e organizzatore della manifestazione ai piedi del Matese: “È un’idea che nasce dal percorso di Ruderi come associazione, l’idea di partire con un evento di divulgazione di quelle che sono l’economia circolare e il design sistemico attraverso due fondamentali pratiche: l’arte contemporanea e la bioeconomia. Questo rappresenta un cambio culturale di approccio. Diciamo che è l’anno zero, soprattutto per le aree interne del sud. Stiamo avendo un grossissimo entusiasmo per quanto riguarda questo progetto. Ovviamente, come sapevamo, e com’è giusto che sia, queste proposte innovative hanno bisogno di tempo per attecchire e per svilupparsi”.

In fine, un accenno all’accoglienza riservata dalla politica, che dalle nostre parti sa essere frenante quasi per imposizione divina: “La politica, solitamente, quando non conosce, non ritiene nelle proprie mire l’interagire con queste cose. Tuttavia, di fronte a una proposta così alta, ha mostrato umiltà e capacità di ascolto. C’è stata una buona collaborazione da parte dell’attuale amministrazione di San Potito”.

 

L’esposizione e le nuove frontiere del design

Durante la manifestazione, gironzolando, da rural flâneur, per le vie di San Potito Sannitico, ci siamo imbattuti nei tanti progetti giunti da ogni dove. La selezione degli stessi è stata effettuata da una giuria di esperti presieduta dal succitato Mario Festa. Affiancato, tra gli altri, da Marco Scotini, direttore del dipartimento di Arti Visive e Studi Curatoriali presso la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.

I progetti sono stati suddivisi in tre categorie: (A) oggetti di rural design/design sistemico; ( B) nuovi materiali a base naturale; (C) progetti o processi ispirati ai principi dell’economia circolare e del design sistemico. Con un’esposizione, originariamente pensata tra le mura domestiche degli abitanti del borgo, ma successivamente ripartita, con un pizzico di poesia in meno e parecchi pizzichi di praticità in più, all’interno di tre location: Palazzo Campochiaro, Pro Loco, Auditorium.

Praticità, a esser pignoli, puramente teorica, perché l’accesso al segmento espositivo custodito dalla Pro Loco non ci è sembrato così fluido, con orari di visita non sempre rispettati. Sintomo, non l’unico, di un’organizzazione complessiva da rivedere. Al netto del rodaggio.

Ad ogni modo, nell’esplorare la prima parte dell’esposizione, ci siamo fatti guidare da Caterina Plenzick, autrice, insieme a Katrin Krupka (che Caterina ci ha pregato caldamente di menzionare), del progetto vincitore per la categoria B.

Così ci ha descritto, in breve, la sua ricerca, intitolata “Refused Matter”: “Il progetto è un percorso di ricerca e sperimentazione basato sul riutilizzo di scarti di pratiche agricole e di allevamento per lo sviluppo di nuovi materiali compositi. L’obiettivo è integrare il nostro lavoro in circuiti economici di piccola scala, come quello del Matese. Auspichiamo che il progetto sia visto come spunto per immaginare e realizzare nuovi scenari in cui il rifiuto, raccolto prima di confluire in discarica, venga percepito come risorsa preziosa e indispensabile in sistemi di produzione sostenibile”.

Nella stesso spazio espositivo ci ha molto incuriosito anche il progetto vincitore per la categoria A, di Audrey Snyder, intitolato “Campagna/Campana/Campo”. Lavoro delicato, borderline, che pone la campana al centro dell’indagine, come oggetto “sinfonico” in grado di interconnettere persone, animali e terra.

In tal senso, l’autrice, coniugando la sua ricerca con le trame storiche dell’area del Matese, regione tipicamente pastorale, si serve di una pressa manuale per schiacciare terriccio e semi in campane di terracotta, ottenute con la terra e l’argilla raccolte dalle vie battute dalle greggi. Il risultato è il seguente: mentre le pecore pascolano, le campane che hanno intorno al collo risuonano e si consumano, lasciando dietro di sé una scia di terra e semi.

Andando oltre, procedendo verso la prosa e verso l’Auditorium, sede del secondo segmento espositivo, siamo inciampati in Grazia De Carlo, un’altra giovane designer animata dall’idea di generare flussi di ricchezza sul territorio, contrastando l’acuirsi dello spopolamento. Il tutto a partire dalla lavorazione e dalla tessitura della lana, antica risorsa poco contemplata in ambito imprenditoriale: “Il mio lavoro è volto a recuperare un preziosissimo bene disponibile nel mio paese, che è la lana, perché a Pietraroja ancora si vive di pastorizia, allevamento e artigianato. Al giorno d’oggi, tuttavia, la lana è impiegata poco e i pastori spesso la bruciano, inquinando. Perché se dovessero smaltirla in maniera adeguata, spenderebbero molto. Ragion per cui, avendo dedicato i miei studi al tessile, al disegno di prototipi e abiti, ho pensato di recuperarla per farla diventare redditizia, sia per i pastori che per me. Creando un piccolo circolo economico, una piccola filiera che, successivamente, potrà anche espandersi. Inoltre, ho abbinato l’idea di recuperare la lana con la sua eventuale colorazione con radici naturali, non usando prodotti chimici: sarà un prodotto di alta qualità e, forse, poche persone se lo potranno permettere, ma quelle stesse persone saranno sicure di avere un prodotto di qualità, non nocivo”.

A conclusione del tour espositivo, nella quasi inespugnabile Pro Loco, ci siamo soffermati con Nello Antonio Valentino, prodigo di dettagli interessanti sul suo versatile curriculum. In cui coesistono pacificamente attitudine al design industriale, ricerca bioecologica e azioni di guerrilla gardening, come, ad esempio, il lanciare sfere di argilla piene di semi e terra secca all’interno di aiuole spoglie per permettere la formazione di nuovi angoli di verde.

Ecco cosa ci ha detto in merito al suo lavoro, “Canopic Rebirth”, presentato alla Rural Design Week, in collaborazione con l’assente Aniello Rega: “Abbiamo pensato di fare delle canopiche, delle urne cinerarie riferite al passato, per la nostra tradizione etrusca. Abbiamo giocato con il biodegradabile, cioè con degli scarti di lavorazione delle argille. E chi, come noi, utilizza tante argille diverse sa che le proprietà delle argille non sono miscelabili, quindi non si riesce a tirare fuori un prodotto anche miscelandole. Di questo scarto ne abbiamo fatto delle sfere in terra secca, decorate con degli acidi naturali, in questo caso aceto, limone, e ne abbiamo tirato fuori il design italiano. I pezzi vengono messi ad asciugare e non cotti e la forma si mantiene finché non viene a contatto con l’acqua. Nel momento in cui contengono le ceneri e queste hanno perso il loro valore di ricordo all’interno di un’abitazione, si passa al rito della sepoltura. Quindi, si apre il tappo in sughero, si prendono i semi, in questo caso messi nelle carte germoglianti, si mettono all’interno dell’urna, la si chiude, si seppellisce e si aspetta che spunti il primo filo d’erba. In effetti, ci eravamo interrogati, al di là del divertimento dell’economia circolare che ormai è diventata una professione vera e propria perché ce n’è esigenza, sul come trasformare i vecchi cimiteri in grandi foreste”.

 

Ciò che resta lo fondano i poeti… 

Uno dei momenti più coraggiosi e, se vogliamo, più coinvolgenti di questa prima edizione della Rural Design Week è stata senz’altro la residenza poetica “Nzierto”, culminata in uno slam poetry, una battaglia in versi, tra le vie del borgo.

L’esperimento, quasi un unicum nel suo genere, tuttavia, ha vissuto una fase di incubazione non così serena, spezzando il fronte degli organizzatori in due correnti (gli entusiasti e i perplessi): tra chi lo riteneva una risorsa spaesante, di forte impatto, e chi temeva potesse rivelarsi fuori contesto.

Ciononostante, fonti adamantine ci hanno riferito che, una volta chiusi i battenti, la “faida” si è ricomposta e l’apprezzamento è stato unanime.

E, in effetti, se consideriamo la questione del “coinvolgere” come primaria per una buona riuscita di una manifestazione con tale fisionomia, non ci riesce difficile immaginare la conversione degli scettici, poiché la disseminazione poetica, di fatto, si è imposta come un formidabile dispositivo di avvicinamento a ciò che si stava cercando di realizzare in un senso più ampio, scongiurando il giudizio pigro. Scongiurando quel puzzo da “addetti ai lavori” che chiunque si prefigga di “rigenerare un territorio” proprio non può permettersi. In formula secca: diventerebbe un po’ astrusa la rigenerazione di un territorio nella noncuranza generale del territorio stesso.

Di questa esperienza inedita ci ha parlato il direttore artistico della residenza, Vittorio Zollo, performer eclettico, battitore libero, estroso rompipalle: “L’esperienza del laboratorio che ho diretto parte da lontano. Anni fa avemmo l’idea di inserire una cosa del genere all’interno di un paese che è una realtà virtuosa per i migranti, Petruro Irpino, e ritenni che questa cosa potesse funzionare anche altrove. Dopodiché, confrontandomi con Luigi D’oro, che è stato il mio punto di contatto con la Rural Design Week, ho pensato di introdurre un discorso poetico all’interno di un evento che non sembrava potesse ospitare la poesia, prediligendo residenze artistiche che lasciano un segno tangibile nel paese: scultori, pittori, street art, eccetera. Ebbene, io ho suggerito di tentare ugualmente questo esperimento, mettendo su una squadra di poeti tutti dediti all’oralità, provenienti da un circuito a me noto, quello della Lega Italiana Poetry Slam e cercando di selezionare profili eterogenei. Di fatto, abbiamo avuto due giorni per questa operazione di innesto. Io ho chiamato la residenza “Nzierto”, che, in dialetto, è proprio l’innesto: come quando prendi un frutto, ad esempio una mela, che non nasce per i semi, ma solo per innesto; prendi un ramo, fai l’innesto a spacco e fai nascere un nuovo frutto sull’albero che non aveva questa capacità. Dunque, proprio per innestare la poesia in un discorso di ruralità critica, magari per produrre un codice più comprensibile”. Poi ha proseguito: “Il problema consisteva nell’arrivare a parlare con gli abitanti del posto di quello che stava accadendo, ovvero della Rural Design Week. Motivo per il quale ho deciso di coordinare un’azione poetica con i ragazzi nella zona bassa del paese, dove abbiamo realizzato delle performance per entrare in contatto con la popolazione di San Potito Sannitico, che fino a quel momento era inconsapevole di quanto stesse accadendo attorno. Azioni poetiche che ci sono tornate indietro il giorno dopo, nel giorno del poetry slam, giorno nel quale i ragazzi hanno dovuto ultimare i componimenti: i testi prodotti ti fanno capire attraverso diverse sensibilità il discorso che si stava cercando di fare su San Potito. Sia chiaro, poesie di primissimo impatto, fotografie”.

Anche Francesca Mazzoni, poetessa e fondatrice del collettivo “Caspar Campania Slam Poetry”, ha voluto sottolineare l’importante funzione di “cucitura” con il territorio svolto dalla residenza poetica nell’economia della manifestazione, non risparmiando critiche: “Ci siamo posti da bassa manovalanza. Abbiamo lavorato principalmente osservando, camminando, provando a bussare a qualche porta, chiacchierando con le persone. È stata una buona mossa coinvolgerci”. Sulla Rural Design Week, invece, il giudizio è stato meno morbido: “Buona l’intenzione, ma organizzata male”.

Più possibilista Giuliano De Santis, fondatore dei collettivi poetici “Slammals” e “Incendi Spontanei”: “Ho apprezzato il gioco alla base del nome Rural Design, che ammicca alla Design Week milanese e quindi creare questo suo alter ego rurale lo trovo molto interessante. Temo, però, che questo gioco di parole finisca per allontanare le persone che vivono la situazione dal progetto in sé, perché un nome di questo tipo può essere meno catchy”.

Per le considerazioni finali, preferiamo consegnarci alle parole di Simone Savogin, tre volte campione nazionale del Poetry Slam: “Io penso che le cose vadano sempre fatte, probabilmente qualcosa di questo genere andava immesso in questo ambiente con più mezzi, con una diffusione maggiore, per poter essere capito da chi vive questi luoghi. Però sono convinto che andava fatto. Quando le pensi le cose sono sempre buone, quando le fai ti accorgi dei tuoi limiti, dei limiti che l’ambiente ti pone. La cosa che mi ha colpito di più sono stati i laboratori nelle scuole. Andrebbe allargato questo approccio laboratoriale anche sugli adulti o su chi è a contatto con la ruralità. L’idea di fondo è forte, ed è così forte che rimarrà nel tempo”.

TAG:
CAT: economia circolare, tutela del territorio

Un commento

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  1. lina-arena 5 anni fa

    non credo che il poetare di questi gruppi possa trasformare l’insediamento socio-economico attuale.Se i poveracci d el luogo pensano di impiegare quattrini per trasformare o migliorare qualche struttura e si recano con il cappello in mano nella banca più vicina, ottengono garbati rifiuti articolati in versi. E questo per smentire che con la cultura si mangia.

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