La leggerezza del restart

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20 Aprile 2020

“Prendete la vita con leggerezza. Che leggerezza non è superficialità. […] La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso. Paul Valéry ha detto: Il faut etre léger comme l’oiseau, et non comme la plume”

Italo Calvino, Lezioni americane.

 

Cataclismi come quelli che stiamo vivendo offrono spazio a due pericolose, umanissime tentazioni tra loro correlate:

–          da un lato consentono a chiunque sia portavoce di idee in feroce antagonismo con il precedente status quo di dire: “avevamo ragione noi!”. Quasi sempre è la ragione dell’orologio fermo, che due volte al giorno spacca il secondo. Il problema è che oggi noi quel secondo immobile lo stiamo vivendo, chiusi in casa. Qui ci metto nostalgici di ciò che mai fu e vagheggiatori della decrescita felice alla cielito lindo (perché è innegabile che oggi su Milano abbiamo un cielito lindo; che la gente possa crepare di fame diventa un dettaglio della Storia);

–          dall’altro incoraggiano millenaristici sogni di ingegneria sociale ed economica (“riprogettiamo la comunità/città/Stato/globo”) che vogliono cogliere l’uscita dal lockdown come grande occasione per pianificare cambiamenti duraturi e di vasta portata, tali da abbracciare infrastrutture, usi, valori, visioni del mondo.

In entrambi i casi il virus finisce con l’essere non il nemico da battere quanto piuttosto il fattore abilitante per un restart dalle ambizioni palingenetiche, che raddrizzi “ciò che era sbagliato anche prima”: che sia il traffico o la povertà.

Ho detto che sono tentazioni umanissime. Aggiungo che sono, in buona sostanza, inevitabili e, se assunte con moderazione, anche benefiche, in quanto fonte di riflessione. Ciò che dobbiamo evitare a tutti i costi è di prenderle troppo sul serio e soprattutto di farle prendere troppo sul serio dai mille comitati di manager e accademici che oggi devono decidere il nostro restart. Perché la cosa peggiore che possiamo fare oggi è confondere il restart delle attività nelle attuali condizioni di perdurante rischio – dove l’obiettivo principale è di evitare che l’epidemia riprenda vigore – e la palingenesi della nostra società perennemente alla ricerca di nuovi e più giusti modelli di sviluppo. Perché un conto è sviluppare un protocollo operativo per la riapertura delle scuole, un conto è ripensare la scuola dalle fondamenta. E il rischio che stiamo correndo è proprio questo.

Nel primo caso occorre studiare dove, quando e come riattivare le attività mentre si è ancora in presenza dell’epidemia. Servono buoni analisti di processo. Vanno dettagliate le procedure operative adatte, come si fa in tante aziende strutturate e non solo da oggi. Occorre definire se prendere la temperatura di chi entra, verificare gli spazi per vedere se sono adeguati ad una distanza di sicurezza, decidere turnazioni se necessario, formare il personale, acquistare tutto ciò che serve, dai termometri digitali alle famose mascherine. Sono procedure transitorie che potranno essere in futuro ragionevolmente riviste e abolite. Il secondo orizzonte – ridisegnare strutturalmente società, modelli di sviluppo, logiche di comportamento – è di portata del tutto differente e la confusione tra i due, specie in periodo di emergenza, è deleteria. Le economie si pianificano durante le guerre, si liberano quando le guerre sono finite (perlomeno se si è tanto fortunati da vivere laddove la libertà economica è considerata un valore). I sistemi in cui viviamo, anche su scala cittadina, sono così complessi che qualsiasi rigido tentativo di pianificarli nel dettaglio è destinato ad un costoso insuccesso. Per fortuna, aggiungo: perché è l’agire dell’uomo non pianificato da altri che può fare la differenza, cosa che trovo irrinunciabile. Molti dicono che “nulla sarà come prima” – che è la stessa cosa che si diceva a Wall Street dopo il crack del 2008, salvo poi scoprire che tutto è ritornato, in quell’ambito, come prima.

Ora, io non so se il futuro sarà sostanzialmente uguale al passato –  se trascorso un ragionevole lasso di tempo e sconfitto il virus si tornerà all’ heri dicebamus. So però che il futuro certamente non sarà quale lo disegneranno convintamente gli accademici e i manager che affollano i comitati, perché i sistemi tendono a riadattarsi in modo non rigidamente pianificabile. Come ha scritto Paolo Manfredi, i piani della Fase 2 potranno assomigliare a “quelle mappe medievali del mondo conosciuto, minuziosissime e su fogli enormi, ma tutte sbagliate“. E il rischio di un  restart governato da una gabbia di regole tanto iper dettagliate quanto contraddittorie (perché molteplici sono i livelli decisionali) è che la ripresa, invece di attuarla, la strozzi nella culla. 

 

 

Allora nulla serve? No. E’ chiaro che di piani e regole abbiamo bisogno, soprattutto però del primo tipo, che ci facciano uscire dall’emergenza senza farci ripiombare nella pandemia. Ma devono essere piani adattivi, che partono dal presupposto che sbagliare è facile, prevedere quasi impossibile e iper-pianificare pericolosamente inefficace. Da tutto questo discendono a mio avviso alcuni imprescindibili requisiti di metodo per tutti i piani che si stanno studiando:

–          benchmark esterno: monitoriamo costantemente cosa stanno facendo le altre realtà. Vediamo cosa funziona e cosa non funziona in altri contesti. In Corea, a Wuhan, a Nanchino sono già ritornati a scuola? Come? E in Danimarca? Non è una ricetta per il successo, lo è per evitare costosi fallimenti e per riflettere con l’aiuto della prospettiva. Piani dall’esito positivo in dieci contesti è ragionevole – anche se non certo – possano funzionare nell’undicesimo;

–          benchmark interno: fissare quando possibile in anticipo obiettivi o “livelli trigger” e confrontare i risultati attesi con quelli ottenuti. Altrimenti vivremo giorno per giorno l’incertezza del passo successivo, o addirittura del possibile passo indietro. E rischiamo di viverla sui social;

–          flessibilità: evitare quanto possibile scelte rigide e costose che implichino “punti di difficile ritorno”;

–          distinzione tra desiderio del futuro lontano e necessità del presente/futuro prossimo: probabilmente ancora per qualche mese dovremo andare in giro con le mascherine (necessità del presente/futuro prossimo); sperabilmente non sarà così in un futuro più lontano e comunque questo non è un desiderata, ma sempre e solo un vincolo.

Insomma, io credo che il restart vada preso con leggerezza. Quella di Calvino, che non è superficialità ma precisione e determinazione. Soprattutto con grande onestà intellettuale e ancor più grande umiltà intellettuale. E che dia sempre una chiara risposta alla domanda: stiamo pianificando sul difficile oggi o sul radioso domani?

TAG: coronavirus, covir, fase 2, restart
CAT: economia civile, società

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