PIL

Economia

Il paradosso del PIL nell’era dell’AI: produzione su, consumi giù

Il paradosso del “santo PIL”: il pilastro a tre facce dell’economia che rischia di crollare a causa del “terremoto” provocato dall’intelligenza artificiale e dalle nuove tecnologie.

5 Dicembre 2025

Tra tutti gli indicatori economici, il PIL è forse quello che domina più di ogni altro il nostro immaginario. Quando cresce, tiriamo un sospiro di sollievo. Quando ristagna, ci preoccupiamo. Quando scende, temiamo il peggio. È diventato una sorta di barometro collettivo del nostro benessere, senza che ci si chieda davvero cosa rappresenti, come sia composto e – soprattutto – che cosa accadrà quando le sue basi tradizionali inizieranno a vacillare.

Curiosamente, nonostante la sua centralità, il PIL è un concetto che in pochi padroneggiano davvero. In pochi conoscono la sua composizione e il fatto che il risultato finale può essere ottenuto da punti di vista diversi: quello della spesa, quello del reddito e quello del valore aggiunto. Eppure, anche solo osservando i primi due, si scopre qualcosa che dovrebbe farci riflettere molto di più di quanto facciamo normalmente.

Dal lato del reddito, la parte più consistente del PIL deriva dai redditi da lavoro – dipendente e autonomo – che rappresentano circa il 70% del totale. Dal lato della spesa, una percentuale analoga è rappresentata dai consumi delle famiglie. È una verità semplice e quasi ovvia: il reddito guadagnato con il lavoro alimenta i consumi e, attraverso questi, sostiene l’intero sistema economico.

Qui nasce il paradosso. Con la tecnologia che sostituisce progressivamente il lavoro umano, come sta già accadendo da decenni e come accadrà con un’accelerazione brusca grazie all’intelligenza artificiale, diminuiscono i redditi da lavoro. E se diminuiscono i redditi da lavoro, diminuiscono i consumi. E se diminuiscono i consumi, diminuisce il PIL. Dunque, la stessa corsa all’efficienza e alla produttività rischia di erodere le basi su cui si regge il sistema.

Finora questo processo non è stato percepito in tutta la sua portata. Le tecnologie degli ultimi trent’anni hanno sì sostituito molte mansioni, ma ne hanno anche create di nuove. Al tempo stesso, la popolazione in età lavorativa sta diminuendo — soprattutto nei Paesi a bassa natalità — e questo ha “ammortizzato” il fenomeno. Tuttavia, l’intelligenza artificiale non crea più posti di lavoro di quanti ne elimini: il suo impatto è diverso, più radicale e pervasivo. Quando entra in un settore, riduce il lavoro umano a una funzione residuale. E riducendo il lavoro umano, riduce i consumi e così via.

È possibile che un sistema economico nazionale regga, per un periodo limitato, grazie alle esportazioni. È ciò che abbiamo fatto anche noi negli ultimi decenni: competere sui mercati esteri comprimendo i salari, per mantenere prezzi competitivi. Questa scelta, però, (come volevasi dimostrare sopra) ha depresso i consumi interni e spiega in buona parte perché il nostro PIL cresce poco, quando non decresce.

Tuttavia, questa strategia non potrà durare a lungo. I nostri concorrenti internazionali sono più avanti nell’adozione dell’AI e delle nuove tecnologie, e questo significa che presto potranno produrre a costi ancora più bassi, con standard più elevati e con minore impiego di lavoro umano. In un contesto del genere, continuare a puntare sulle esportazioni non sarà un’opzione sostenibile, anche perché si tratta di un fenomeno globale che prima o poi riguarderà tutti i PIL del pianeta e, di conseguenza, il PIL globale.

Ci troviamo quindi di fronte a uno scenario che in molti preferiscono ignorare, recitando il solito mantra: “ogni rivoluzione tecnologica ha creato più posti di lavoro di quanti ne abbia distrutti”. Tuttavia, questo era vero in un mondo in cui la tecnologia creava interi nuovi comparti industriali e in cui la popolazione continuava a crescere, garantendo nuovi consumatori. Oggi né l’una né l’altra condizione sono più presenti.

I tanto vituperati tecno-turbocapitalisti USA hanno ben chiaro che senza consumi sono a rischio anche i profitti e infatti da tempo propongono soluzioni preventive, come l’UBI (Universal Basic Income). Da noi, invece, si continua a confidare nel passato, come se le dinamiche attuali fossero comparabili con quelle dei telai meccanici o dei motori a scoppio.

La mia proposta è invece quella di incentivare questa transizione tecnologica con apposite politiche: prendere l’iniziativa per liberare gradualmente l’umanità dal lavoro, iniziando a fornire un reddito per i consumi (e quindi anche per i profitti delle imprese) alle nuove generazioni, ai “disoccupati tecnologici”, a chi ha svolto lavori gravosi per anni, un reddito utilizzabile anche per ridurre sempre più l’eta pensionabile (boom!).

Credo che questa transizione debba essere programmata e guidata dalla politica, non certo aggiustata in emergenza sotto l’incalzare degli eventi. Con una parte crescente della produzione svolta da sistemi automatici, sarà necessario garantire alle persone la possibilità di continuare a consumare i beni prodotti da queste tecnologie. Questo è il nodo centrale.

La differenza tra governare questa transizione e arrivarci in emergenza è enorme. Nel primo caso si può costruire una solida nuova classe media, capace di sostenere consumi, investimenti e stabilità sociale. Nel secondo caso, si rischia la nascita di un vasto sottoproletariato che vive di sussidi minimi e la conseguente contrazione strutturale del mercato interno.

E a quel punto, non sarà solo il PIL a vacillare. Sarà la tenuta stessa del nostro modello di società.

Se vogliamo evitare che l’economia si trasformi in un meccanismo che produce merci per consumatori sempre più rari, dobbiamo prendere sul serio il paradosso: eliminare il lavoro umano fa aumentare la produttività, ma rischia di far crollare la domanda. È il momento di rimettere al centro l’obiettivo primario dell’economia: non il PIL, ma il benessere collettivo di cui il PIL è solo un indicatore grossolano e inadeguato.

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Fabio Massimo Rampoldi è autore di Scritti di ALTER EGOnomia, una raccolta di riflessioni sull’impatto delle nuove tecnologie sul lavoro e sulla ridistribuzione del benessere.

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