La vergogna di noi adulti
Ho la sfortuna di abitare davanti a un Liceo di Milano, un Liceo artistico, per l’esattezza. Li vedo spesso, gli studenti, dalla mia finestra, attraverso la loro finestra, che la distanza rende quasi uno spioncino; l’immagine che ho di più in mente è quella di alcune schiene, chine sui fogli, e delle gambe di una professoressa che cammina tra le file di banchi. Quando l’occhio mi cade su queste scene, mi domando sempre cosa stiano facendo e scivolo immediatamente nell’immedesimazione lì, con loro, a fare una verifica, a distrarmi, a pormi le grandi domande sul mondo.
Quando hanno riaperto le scuole in Lombardia, ero emozionato. Non li vedevo da mesi, gli studenti, e invece eccoli, attraversavano scompostamente la strada, per corrersi incontro e salutarsi, tra le esitazioni del non potersi toccare, ma nella convinzione che almeno in cerchio, sul marciapiede, ci sarebbero potuti stare. Capelli corti, capelli blu, capelli lunghissimi, orecchini, tanti orecchini, occhiali grossi o minuscoli. Alcuni se ne stavano da soli, in un angolo, a messaggiare in attesa di poter entrare. Due si sono baciati sulla bocca, tenendo su la mascherina, e ho pensato a Magritte.
Dopo il primo giorno hanno iniziato a risultarmi molesti; entrando a scuola da ingressi diversi, invadevano fino alle 8 e 10 tutto il marciapiede destro e tutto quello sinistro, e io non potevo passare con il mio cane. Addirittura uno, che mi sembrava un galletto, molto più alto di me, teneva sempre la mascherina sul mento. Giorni dopo giorno hanno abbassato progressivamente la guardia, e la mascherina sul mento hanno iniziato a portarla in tre-quattro di quei gruppetti in cerchio. Quando mi avvicinavo a loro, sul marciapiede, e non si spostavano, obbligandomi a fare un pezzo sulla carreggiata, mi domandavo: “Possibile che non mi vedano?”.
Ora il mio marciapiede sarà libero. Nessuno scocciatore in giro. Nessuno di quei corpi a volte sgraziati, a volte minuti, sempre comunque estremi. Da inizio ottobre avevo notato che nessuno di loro si azzardava più ad abbassarsi la mascherina sul mento; ho pensato che i professori avessero fatto loro una bella ramanzina, schiaffeggiandoli con il dato di realtà: «Se non siete ligi alle regole, qui chiudono tutto». Si sono adeguati subito.
Ma no, che c’entra? È uscito uno studio statunitense del Center of Disease and Control che mostra chiaramente come la differenza tra chi si è contagiato e chi no non stia né nella frequenza con cui avevano preso i mezzi pubblici, né nella frequenza con cui si erano recati al lavoro o a scuola, ma nell’abitudine ad andare al ristorante, al bar o in pub. Certo, ci sono tutti i limiti di uno studio retrospettivo, che è bene venga integrato anche da uno studio di coorte, ma l’indicazione è abbastanza chiara: «Eating and drinking on-site at locations that offer such options might be important risk factors associated with SARS-CoV-2 infection». E allora perché chi governa Regione Lombardia e Regione Campania si è focalizzato su di loro?
Un primo motivo è la confusione. Forse qualche adulto ha pensato che ad affollare i tavolini di bar e pub, o a riempire i ristoranti, fossero loro, gli adolescenti. Chi lavora a fianco di un sedici-diciassettenne sa, tuttavia, che a quell’età si ha ben poco tempo per far baldoria: con una scuola sempre più performativa e carica di richieste, genitori con l’horror vacui e il senso di colpa per la loro assenza, tra sport, compiti, il massimo che un adolescente si riesce a concedere è un po’ di videogioco, anche quello temporizzato, naturalmente, ché se no diventano hikikomori. Hanno almeno vent’anni quelli che stanno in piedi la sera, e ne hanno almeno quaranta quelli che possono andare spesso al ristorante. Questi sono gli stili di vita nostrani, questo è ciò che ci consente la nostra sociologia.
Un secondo motivo è il silenzio. Negli ormai quindici anni di lavoro a fianco degli adolescenti (e comunque son pochi), posso dire che sì, va bene, ci sono le tappe evolutive, e sì, c’è l’Attention Disorder sempre in agguato, e ancora sì, alcuni hanno necessità di essere devianti: ma gran parte della rabbia degli adolescenti, gran parte delle loro ribellioni, nascono dal fatto che sono oggetto di pregiudizio. Sono costantemente sotto i riflettori di adulti che li irritano con le loro contraddizioni, con i loro compromessi, con la loro educazione da quattro soldi, e che tanto hanno fatto negli anni che, alla fine, sono riusciti perfino a zittirli. E se provano a ribellarsi per dire «Guardate in che schifo di mondo ci state facendo vivere» mandano le telecamere a interrogarli sul clima per ridacchiare della loro impreparazione.
Sono preoccupato per Davide, e a cosa si inventerà per non stare con suo padre che sbraita davanti al videopoker; per Alessandra, che è rientrata a scuola con una fatica immane, e alla madre cui non è mai andato giù che a lei di un Liceo non fosse mai fregato nulla, voleva fare la scuola professionale con l’amica del cuore; per non parlare di Gionata, che anche se grande e grosso spesso le prende dai suoi, o di Francesco, che odia sua madre da quando gli ha calpestato il cucciolo in preda all’ira. Per molti degli adolescenti che ho incontrato, la scuola è un luogo di fuga, dove cercano di assemblare qualcosa di sensato tra una disuguaglianza e un’altra.
Vergogna, adulti. Questa seconda ondata di pandemia ce la siamo preparata proprio bene, facendo in modo che il conflitto sociale aumentasse ancora di più (ne parla Lucia Gangale qui, su Gli Stati Generali). In fondo, il confinamento primaverile era stato molto democratico: tutti a casa. Il sequel, però, è grottesco, perché non ci sono più soldi per tenere tutti a casa, e «Allora diamo un segnale», avrà detto qualche genio nella stanza dei bottoni, diamo un segnale e lasciamo a casa gli adolescenti, ché tanto ormai non fanno più casino, non è come ai nostri tempi, quando protestavamo per ogni cosa. Ricordiamoci però di una cosa: senza palestra, senza piscina, senza scuola, il tempo per annoirarsi è tanto. Ed è dalla noia che nascono le proposte più interessanti e dirompenti.
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